Tra i greci di Calabria ho conosciuto diversi personaggi. Catuzza Nucera detta di Clistì era unica. La descrive mirabilmente Valentino Santagati nel suo libro (con Carlo Mangiola) Le vacche sono anime del Purgatorio, Iiriti 2001

Catuzza Nucera di Bova, la vedova del maresciallo Volontà, non parlò greco in gioventù.
Era nata nel 1912 in una famiglia contadina e i suoi genitori, convinti che il greco rivelasse alle orecchie del mondo l’uomo d’ammunti, zangrèo e paddecu, basarono l’educazione linguistica della prole sul calabrese boviciano.
Solo quando si bisticciavano scappavano dalle loro bocche male parole greche, e quando si cantavano travùdi d’amore non riuscivano a prescindere dalla lingua madre.
A dispetto di tutti gli accorgimenti, nel segno dei canti e delle piccole sciarre familiari, Catuzza diventò comunque grecofona. Io la ricordo nelle manifestazioni degli ellenofoni e negli incontri tra greci di Grecia e di Calabria: con le pupille ridenti dentro gli occhiali grandi si avventava sul microfono come su una preda fino a stringerlo con forza mentre se lo portava alla bocca.
A quel punto, sventolando la mano libera con un gesto frequente nelle contadine che cantano o si accalorano nel parlare, dava inizio all’esecuzione di una sfilza di canti greci.
Catuzza proseguiva ad oltranza, con un’allegria e un calore che conquistavano sempre l’uditorio, fino a quando qualche imbarazzato organizzatore, ringraziandola e proponendo un applauso per lei, non le strappava il microfono di mano per evitare di accumulare ritardi sullo svolgimento del programma.
Una sera di dicembre del 1990, mentre parlavamo nella casetta di Bova ove viveva col figlio schettu (celibe n.d.r.), feci osservare a Catuzza che forse i suoi mari (defunti n.d.r.) genitori sarebbero stati contenti di una figlia come lei, che vendicava dopo tanti anni le loro umiliazioni impegnandosi nel revival del canto greco.
“Ma cu lu sapi — dubitò Catuzza — iddi camparu quandu lu greco era mundizza. Nui avivamu lu granu seminatu e facivamu lu bacu di la seta, ma me patri era capu mulatteri chi purtau lu sali di Melitu a Bova pi sessant’anni. Aviva nu frati a lu seminariu puru. Accamora di mia pensavanu ca pacciai, ca li sensi mi bbandunaru”.
(Ma chi lo sa – dubitò Catuzza – loro sono vissuti quando il greco era spazzatura. Noi avevamo il grano seminato e allevavamo il baco da seta, ma mio padre era capo mulattiere che portò il sale da Melito a Bova per sessant’anni. Aveva pure un fratello in seminario. Ora di me penseranno che sia impazzita, perché i sensi mi hanno abbandonato n.d.r.).
Nucera Caterina nata a Bova il 09-09-1912, deceduta a Melito di Porto Salvo il 21-05-1997

Un tragico incidente avvenuto oltre un secolo fa in Aspromonte, narrato vividamente dallo scrittore sanluchese Fortunato Nocera in Colloquio col padre, Città del Sole 2011

Mia nonna perse il padre da bambina a causa di una disgrazia che ha dell’incredibile. Era la fine del 1800 e Francesco tornava dalla montagna dove lavorava come garzone in una delle mandrie di don Vittorio, portava la bisaccia carica di formaggi da consegnare al padrone. Era il mese di settembre, la calura era ancora grande. Francesco sentì il bisogno di rinfrescarsi ad una sorgente che scaturiva in una valletta vicina. Per abbreviare il cammino lasciò il sentiero che portava al paese e prese per un campo di mais. La raccolta delle pannocchie era avvenuta da poco; gli steli erano stati tagliati a circa venti-trenta centimetri dal suolo. Per la stanchezza, per la sete e per la grande calura, Francesco inciampò con una delle stringhe delle sue calandrelle e cadde in avanti, sospinto anche dal peso della bisaccia.  Uno degli steli tagliati a forma di cuneo andò a conficcarsi nel petto recidendo di netto l’aorta. Morì dissanguato in meno di mezz’ora. Fu trovato la sera dello stesso giorno. Avrebbe compiuto trent’anni la settimana successiva. Aveva attraversato valli e valloni, era passato su strettissimi viottoli a strapiombo su profondi burroni, aveva guadato torrenti turbinosi, saltando sulle pietre che affioravano dall’acqua, aveva camminato ininterrottamente per quattro ore e mezzo ed era venuto a morire in pianura, a meno di un chilometro da casa.