Il castagno era detto l’albero del pane dei poveri o albero della vita dato che i suoi frutti sono stati per secoli un alimento fondamentale nelle regioni montane.
Da un’attenta indagine del prof. Angelo Gligora abbiamo il racconto di come nel secolo scorso anche ad Africo avesse enorme importanza la castagna, cibo fondamentale per tutto l’inverno. La presenza di un esteso castagneto comunale era una risorsa vitale per gli africoti.
Ecco quanto ci hanno raccontato ad Africo Nuovo nel novembre 2024, con dovizia di particolari, le signore Maria Nocera di Africo e Concetta Palamara di Casalnuovo (frazione di Africo), ultranovantenni, che ringraziamo per la preziosa testimonianza.
La voce rotta dall’emozione e gli occhi lucidi sono segno delle sofferenze, delle indicibili fatiche provate ad Africo dove sono nate e vissute fino all’alluvione del 1951.

“Ad Africo Vecchio c’era un grande castagneto di proprietà del Comune con delle piante secolari che per la sua qualità dava una produzione importante per poter superare il periodo invernale. Per venire incontro alle famiglie meno abbienti l’amministrazione comunale ne consentiva la raccolta senza alcun pagamento. Gli abitanti che volevano raccogliere le castagne dovevano fare domanda al Comune per avere l’assegnazione delle piante per nucleo familiare.
Il Comune nel mese di settembre incaricava un suo addetto (u stimaturi) a recarsi sul posto dove stimava e assegnava le piante di castagno in proporzione al numero dei componenti del nucleo familiare richiedente. L’estimatore nella sua funzione di persona di fiducia del Sindaco indicava anche il periodo utile per la raccolta che andava dal 1° di ottobre al 1° di novembre. Durante questo mese interi nuclei familiari, grandi e piccoli, si spostavano dal paese al castagneto che brulicava di persone intente alla meticolosa raccolta del prezioso frutto.
Dal 2 di novembre, giorno della Commemorazione dei Defunti, il Comune con i suoi uffici dava notizia che il castagneto era libero (dai vincoli precedenti), l’assegnazione alle famiglie cessava e quindi tutta la popolazione poteva raccogliere le castagne che erano rimaste sul terreno, sugli alberi e quelle che cadevano giornalmente.
Il castagneto, pertanto, si ripopolava di cittadini, che magari per aumentare la quantità già raccolta accorrevano in massa.
Dei tignanisi, gli abitanti della frazione di Casalnuovo, in pochi beneficiavano del castagneto comunale. Utilizzavano, chi li possedeva, castagni privati, fuori dal centro abitato e in posti lontani e di difficile accesso.

La castagna rappresentava un alimento indispensabile per tutta la popolazione, perché si consumava fresca durante tutto l’inverno, ma era molto importante per quanti dovevano andare a coltivare i terreni o allevare gli animali fuori dal centro abitato. Costituiva il pranzo per tutta la giornata.
Le castagne si prestavano a diversi usi: caldarroste, bollite ma principalmente infornate. Molto importante per la conservazione delle castagne fresche era la cosiddetta infossata o ‘mpossata.

Anzitutto si individuava il posto, un albero possibilmente vicino la propria casa sotto il quale si dovevano infossari le castagne. Per timore che potessero essere rubate alcuni le infossavano dentro casa facilitati dal fatto che il pavimento era in semplice terra battuta.
La conservazione avveniva con molta cura scegliendo le castagne migliori, senza intaccature e compatte. Si scavava una fossa delle dimensioni adeguate alla quantità di castagne e si portava della sabbia dalle fiumare che si disponeva nel fondo della fossa. Vi si appoggiava uno strato di castagne, si ricoprivano con la sabbia e si mettevano altre castagne. Si continuava così, alternando uno strato di castagne e uno di sabbia sino a colmare la fossa.
La corretta esecuzione del procedimento era molto importante perché faceva scivolare l’acqua piovana evitando che le castagne marcissero e conservandole per diversi mesi.
Il sistema utilizzato consentiva di avere le castagne nel periodo delle festività natalizie potendo così preparare il castagnaccio, uno dei pochi dolci che ci si poteva permettere.”

Per conoscere la pratica dell’infossata sono stati intervistati altri anziani vissuti ad Africo Vecchio tra cui Domenico Criaco detto Micciarella del ’39, Francesca Pangallo del ’34, Leo Criaco detto Cropò del ’45, Andrea Stilo del ’32, Giuseppe Criaco detto u Velenusu; Antonio Criaco detto u Centu; Domenica Morabito detta a Tabarana. Li ringraziamo tutti.

Pubblichiamo una foto aerea del 1983 dove, oltre ai ruderi di Casalnuovo in alto a sinistra e quelli di Africo in basso a destra, un quarto dell’immagine (in alto a destra) ritrae l’ampio e fitto castagneto.

Foto, descrizione e alcune piante monumentali del castagneto di Africo

Sin da bambino, ho sentito il richiamo del cielo, e col tempo, la passione per l’astronomia ha incontrato il mio amore per la natura, trasformandosi in astrofotografia. Questa forma d’arte consiste nel catturare i soggetti cosmici – galassie, nebulose e stelle lontane – raccontati attraverso la luce. Mentre nella fotografia tradizionale basta un singolo scatto, nell’astrofotografia ogni esposizione può durare ore (spesso suddivisi in molte notti), raccogliendo pazientemente fotoni che hanno viaggiato per centinaia di milioni di anni luce.
L’Aspromonte è diventato il mio osservatorio a cielo aperto, un luogo dove la terra si protende verso l’infinito e ogni notte si riempie di storie antiche e segreti cosmici. Qui, tra le sue valli selvagge e i boschi intricati, le stelle sembrano più vicine, come antichi custodi silenziosi. Le cime aspre emergono contro il cielo e la loro bellezza parla con voce muta di un tempo remoto. In queste notti solitarie, la montagna sembra respirare insieme alle stelle, avvolta in un maestoso silenzio. Durante le osservazioni notturne, talvolta, la presenza curiosa di una volpe che mi osserva da lontano, come un guardiano silenzioso della notte.

Il telescopio, fissato su una montatura equatoriale motorizzata e collegato a una fotocamera astronomica raffreddata a -10° C, (la bassa temperatura aiuta a ridurre il rumore termico generato dai pixel attivi che si riscaldano durante l’acquisizione e che si trasformerebbe in segnale indesiderato), segue con precisione l’apparente movimento delle stelle dovuto alla rotazione terrestre. Questa precisione è essenziale: senza un inseguimento accurato, le stelle apparirebbero come scie luminose.
Ogni immagine finale è il frutto di un lungo processo: le esposizioni prolungate, vengono elaborate tramite software specifici per eliminare disturbi, migliorare i dettagli e bilanciare i colori. Inoltre, è possibile acquisire dati in LRGB (luminanza, rosso, verde e blu), una combinazione che riproduce i colori in modo simile alla visione umana. Ogni fase del lavoro richiede attenzione e competenza: dalla calibrazione delle immagini alla combinazione dei diversi scatti, fino all’estrazione dei dettagli nascosti nel profondo della luce cosmica.
Questo tipo di fotografia richiede notevole pazienza, poiché si utilizzano strumenti di altissima precisione che richiedono una preparazione accurata. È fondamentale inserire le coordinate esatte del luogo di ripresa e l’orario preciso, stazionare il telescopio, e ambientarlo affinché la sua temperatura si allinei a quella esterna, eliminando le distorsioni termiche.

Tra dei miei scatti più significativi vi sono la Nebulosa Proboscide di Elefante nella costellazione di Cefeo e la Nebulosa di Orione, catturate sotto il meraviglioso cielo d’Aspromonte. Sono il risultato di 11 ore di esposizione per la prima e circa 60 ore per la seconda. Queste fotografie, pubblicate anche dalla NASA, raccontano una storia millenaria, un frammento di universo che ha viaggiato nel tempo per giungere fino a noi.
Così, l’astrofotografia diventa un viaggio tra tecnica e arte, dove ogni scatto, ogni dato e ogni ora trascorsa sotto il cielo si uniscono per raccontare l’eternità racchiusa nelle stelle ed il legame profondo che ci unisce all’universo.

 

di Giuseppe Arcidiaco

I MULINI AD ACQUA
I mulini ad acqua sono stati protagonisti dell’economia di intere generazioni della vallata del Gallico (RC). Sulle carte topografiche dell’IGMI, lungo il corso di questa fiumara, in contrada Limini, territorio compreso tra Podargoni e Santo Stefano d’Aspromonte, sono segnalati i ruderi di due mulini, riportati come mulino Limini e mulino del Principe. Insieme al mulino Zoccali, sito all’interno del centro abitato di Podargoni, essi costituiscono un’importante testimonianza delle attività di molitura che caratterizzarono queste zone dell’Aspromonte nel corso del 1800. Inoltre, alcuni frammenti di antichi manufatti in pietra segnalano la possibile presenza di almeno un’altra macchina idraulica dello stesso tipo nelle vicinanze del mulino Limini, probabilmente distrutta da una piena durante le frequenti alluvioni.

COSTRUZIONE E FUNZIONAMENTO
Tali strutture, un tempo molto diffuse e numerose, erano alimentate dall’acqua della fiumara e distribuite lungo tutto il suo corso fino alla marina di Gallico, a testimonianza di ciò, il toponimo Mulini di Calanna. I loro periodi di attività erano variabili in base alla disponibilità di acqua corrente: quelli più a monte erano funzionanti per tutto l’anno, mentre quelli siti a valle, detti mulini d’inverno, erano attivi solo nei mesi più freddi, quando l’acqua era più abbondante e copriva distanze maggiori procedendo verso la foce. Per le stesse ragioni, questi ultimi, in particolare da Mulini di Calanna in avanti, erano talvolta collegati in serie ed utilizzavano tutti la stessa acqua che così non andava persa e raggiugeva i successivi mulini. Dalla posizione geografica del mulino dipendeva anche il genere di cereali macinati: frumento, granturco, segale, cicerchia ed anche castagne.
Si trattava di mulini a ruota orizzontale, un meccanismo funzionale alla portata non costante ed imprevedibile della fiumara, molto più sicuro rispetto al modello a ruota verticale, che avrebbe implicato la costruzione del mulino molto vicino al letto del torrente, esponendolo alle piene. Infatti, per evitare gli effetti delle esondazioni tali mulini erano edificati lievemente in altura, abbastanza lontani dalla fiumara ed il terreno sottostante era rinforzato da muri a secco. A monte del mulino, la presa d’acqua era costituita da un acquedotto (gora, mastra) che intercettava l’acqua prelevandola dal corso del torrente (o di suoi affluenti) ed alimentava una profonda cisterna (saetta), mantenendo sempre un adeguato livello d’acqua al suo interno. Il flusso, uscente da due ugelli posti alla base di tale serbatoio, veniva indirizzato sulle pale della ruota mettendola in rotazione. La riserva d’acqua nella saetta garantiva una portata costante in uscita, la cui velocità di erogazione poteva essere controllata attraverso opportuni regolatori in lamiera posti sugli stessi ugelli che ne determinavano anche la corretta orientazione. La ruota idraulica, molto spesso doppia, era collegata tramite un albero motore in ferro o legno alla macina posta al piano superiore dell’edificio. La macina era costituita da due mole sovrapposte (la sottana fissa e la soprana rotante, collegata all’albero). Le mole erano scolpite nell’arenaria o nella pietra lavica, importata dalla Sicilia; potevano essere monolitiche, come le più antiche oppure composte da singoli spicchi tenuti insieme da cerchi di ferro. La roccia che le costituiva veniva estratta dalla zona del vallone Merlo a Calanna, ma anche da più lontano come da Pavigliana o dalle grotte di Tremusa (Scilla). Era trasportata dai bovari e lavorata dagli scalpellini, gli stessi mugnai, che ne provvedevano alla periodica manutenzione. Battere mola era l’operazione che consisteva nello scolpire e rinnovare le incisioni ed i solchi usurati dallo sfregamento delle mole; a causa di questo processo, il peso della prima farina, ottenuta dopo una battitura, risultava alterato dalla presenza di polvere di pietra.
La molitura avveniva a partire da un imbuto ligneo quadrangolare (tramoggia) posto al di sopra della macina, riempito con le granaglie da macinare. La vibrazione, generata dal moto rotatorio della macina, favoriva la precipitazione delle stesse attraverso un canale dotato di valvola connesso con il foro centrale di alimentazione della mola, dosandone anche la quantità. Un particolare sistema di picchettatura della pietra garantiva la distribuzione uniforme delle sementi durante la macinazione e l’espulsione del macinato all’esterno, che veniva raccolto e separato tramite setacci. La velocità di rotazione della macina veniva regolata per evitare che un eccesso di calore prodotto per sfregamento scaldasse la farina alterandone il sapore e le proprietà. La macina era dotata, inoltre, di un meccanismo che consentiva di regolare lo spessore tra le due mole, in base al calibro delle sementi e per ottenere un macinato più o meno fine.
Infine, l’acqua, attraverso il canale di uscita, tornava al fiume o veniva nuovamente incanalata e sfruttata per l’irrigazione delle colture agricole. Spesso in questi casi, sorgevano gravi controversie tra i proprietari dei mulini posti a valle, che vedevano ridursi ulteriormente la portata della fiumara ed i coltivatori dei terreni a monte di essi, anch’essi bisognosi di acqua in particolare nei periodi di siccità.

UN PO’ DI STORIA
Il toponimo della contrada Limini deriva probabilmente dal latino limes, letteralmente strada delimitante il confine tra due campi o anche da limen, genericamente limite, linea di demarcazione, confine, frontiera. Per quanto riguarda Podargoni, potrebbe derivare dai termini grecanici podos ed ergon, dunque piede veloce; secondo altre interpretazioni significherebbe ai piedi del monte, in quanto centro abitato collocato alle pendici dei monti Marrappà e Basilicò.
In passato, l’acqua del Gallico è stata sfruttata per mettere in funzione vari opifici di proprietà delle famiglie più influenti della zona, non soltanto mulini, ma anche seghe idrauliche per la lavorazione del legname. Il primo mulino della contrada Limini fu edificato dalla famiglia Criserà attorno al 1808, ricordata per il matrimonio di una nipote con l’eroe di Santo Stefano, Domenico Romeo, ucciso alla fine della rivoluzione del settembre 1847. Attorno al 1815 si attesta la presenza di due mulini, uno precedente ed uno nuovo. Per far fronte al problema delle esondazioni, nel 1858-63 ne venne costruito un terzo. Le famiglie dei mugnai (mulinàri) erano spesso imparentate e talvolta affittavano i mulini ad altri nuclei familiari che li amministravano per loro.
Il mulino Limini fu costruito attorno al 1861-63, in seguito alla distruzione di un manufatto di epoca precedente e risulta oggi in buono stato di conservazione. Apparteneva alla famiglia Criserà, ultimi proprietari, e rimase in attività fino al secondo dopoguerra. Questo mulino, sito nel territorio di Podargoni, serviva quasi esclusivamente gli abitanti di Santo Stefano e fu, infatti, tale comune ad esigere l’odiata tassa sul macinato, introdotta nel Regno d’Italia nel 1868-69.

Il mulino del Principe, coevo del Limini, sorge lungo l’antico sentiero della petrazza che collegava il territorio di Santo Stefano a Podargoni. Viene erroneamente attribuito ai principi Ruffo di Scilla, in quanto sorge all’interno di quella che un tempo era la baronia di Calanna (sulla destra idrografica del Gallico), stato feudale fondato in epoca normanna e governato dai Ruffo, che possedevano, nella stessa zona, un altro mulino di epoca precedente, oggi scomparso.
Un terzo mulino era appartenuto alla famiglia Cimino di Calanna che, con l’intento di contrastare il potere delle altre famiglie di mugnai, costruì la propria mastra in modo da portare l’acqua al suo mulino sottraendola ai Criserà-Romeo. Le lotte che ne seguirono portarono all’abbattimento di questo più recente mulino e all’incendio del mulino Limini per ripicca.
Il mulino Zoccali, all’epoca polo centrale della molitura del grano per la comunità di Podargoni, oggi allo stato di rudere, fu danneggiato dal terremoto del 1908 e progressivamente abbandonato a causa dello spopolamento del centro abitato che caratterizzò il ‘900.
Molti altri mulini sono disseminati lungo la vallata del Gallico come il mulino Palamara a Cerasi o il mulino Calabrò a Sant’Alessio in Aspromonte. Quest’ultimo fu fatto costruire nella prima metà del XIX secolo ed apparteneva all’omonima famiglia, originaria di Calanna. Anche questo mulino fu reso inservibile dai terremoti del 1894 e 1908, ma fortunatamente, nel 1999 è stato oggetto di interventi di recupero.

Fonti: storico Antonino Sapone e architetto Domenico Malaspina in
https://www.youtube.com/watch?v=UVIJg3TvNjs&ab_channel=pasqualelacava
Tutto scorre di Domenico Malaspina e Antonino Sapone, Laruffa Ed. 2019
Le due immagini della tramoggia e della macina sono tratte dalla pagina facebook “mulini ad acqua di Calabria”.

L’idea di porre una statua sul Montalto risale al 1899. Fervevano infatti i preparativi per l’Anno Santo e tra le varie iniziative si pensò di salutare il XX secolo erigendo venti monumenti al Redentore su altrettante cime italiane. Il Comitato deputato all’individuazione dei siti prescelse anche l’Aspromonte e così il 23 settembre 1901 (occorsero ben due anni per la raccolta della somma necessaria) il Cardinale Gennaro Portanova, insieme ai Vescovi della Calabria, celebrò la Santa Messa alla presenza di oltre duemila fedeli.

Ma seguiamo una cronaca dell’epoca.
Era il 24 giugno 1894, Papa Leone XIII promulgava l’enciclica “Preclara” nella quale si leggeva:
“La fine del secolo passato lasciò l’Europa stanca per le rovine e trepidante per i rivolgimenti. All’opposto il secolo che volge al tramonto, perché non dovrà trasmettere in retaggio al genere umano auspici di concordia, con la speranza degli inestimabili beni che sono contenuti nell’unità della fede?”. Questo profondo desiderio del pontefice, fu accolto  positivamente ed il conte Giovanni Acquadermi si fece promotore di un  grande progetto, quello cioè di collocare – come storicamente riporta R. Cotroneo, in “Fede e Civiltà” del 12 Agosto del 1899 – “Sopra diciannove monti d’Italia, dalle Alpi alle Madonie altrettanti ricordi dell’omaggio, quanti sono finora i secoli della Redenzione Cristiana; in modo che venga a formarsi in tutta Italia una simbolica corona sacra al Redentore, attestante ai posteri la dedicazione a Gesù Cristo del secolo XX”.  Il Papa stesso volle che su ogni monumento fosse inciso il motto: “Jesu Cristo Deo restitutae per ipsum salutis – Leo P.P. XIII – anno MCM” (A Gesù Cristo Dio, tramite Lui c’è stata restituita la salvezza) ed a conclusione dell’iniziativa volle che fossero realizzati venti mattoni utilizzando la pietra dei luoghi prescelti, da includersi nel muro della Porta Santa della Basilica Vaticana nell’Anno Santo 1900.
Il comitato Calabro scelse la cima di Montalto per realizzare questo monumento al Redentore, perché come scrive sempre il Cotroneo ” … ma è l’Aspromonte, che quasi immane gigante estolle il suo capo in Montalto, e le sue braccia distende ai due mari, l’Jonio e il Tirreno, ed i piedi, lieve lieve, lambe nel Siculo stretto, ha più diritto di portar sul suo selvoso dorso la statua, o ricordo che sia, del Redentore. Qui città scomparse, qui per lungo e per largo in ogni epoca, fino a quest’ultimi anni, orde e schiere di combattenti e guerre sterminatrici, qui sconvolgimenti tellurici continui… È in fondo a Montalto, la cima più culminante dell’Aspromonte, un tempio Sacro alla Vergine, dal titolo della Montagna o di Polsi, celebratissimo, miracolosamente surto ai tempi di Ruggiero Normanno, ove affluiscono a migliaia carovane di devoti di Calabria e di Sicilia…, parteciparono alla sua realizzazione 19 Diocesi, ed il popolo Calabrese, nonostante le grandi difficoltà economiche, vi partecipò con entusiasmo; ricchi e poveri, chi più chi meno contribuirono. E, finalmente il 23 settembre 1901, la statua in bronzo opera dello scultore Francesco Ierace, eseguita a Roma dalla ditta Rosa e Zanosio, fu trasportata a pezzi a dorso di mulo, tra mille difficoltà da Delianova a Montalto, e, su un terreno donato dal Barone Stranges di San Luca, fu inaugurata dal Card. Portanova, dopo un pellegrinaggio durato 4 giorni, con sosta a Cardeto e Polsi. Vi parteciparono quasi tutti i Vescovi di Calabria, o le loro delegazioni, autorità, nobili e una gran quantità di popolo accorse lassù, per essere presente a quell’avvenimento.”

Si narra che il basamento originale alto 10 metri crollò nei 2 anni successivi all’inaugurazione, ma fu subito ricostruito anche se più basso, simile a quello odierno, e che nel 1908 subì a causa del terremoto una rotazione ma resistette e non crollò e la Statua in quel caso non subì alcun danno.
Negli anni successivi la Statua fu quasi dimenticata tranne qualche pellegrino che, nel cammino per il Santuario di Polsi, passava a fare un saluto alla Statua.
Si narra anche della presenza di un eremita che, per molti anni, scelse come sua dimora proprio la cima di Montalto e li si stabilì a far compagnia al Redentore.
Una scalinata composta da 33 gradoni in pietra di Lazzaro (33 come gli anni di Cristo) saliva al Redentore ma nel tempo crolli, erosione, usura l’hanno quasi cancellata.

Negli anni successivi sia il basamento che la Statua subirono danni causati dalle intemperie, dai fulmini, dai terremoti e da sporadici atti vandalici sino a quando negli anni ‘60 del secolo scorso la Curia arcivescovile di Reggio non decise di riportare la Statua a Reggio per tentare un restauro del manufatto bronzeo, ormai indebolito dal tempo, e della sistemazione del basamento con tecniche più moderne e più resistenti.
Dopo anni di duro lavoro, finalmente nell’agosto 1975 la statua, grazie all’impegno dell’allora arcivescovo Monsignor Giovanni Ferro, fu ricollocata al suo posto in cima all’Aspromonte. Il nuovo manufatto bronzeo, opera del prof. Michele Di Raco, fu prima portato a Gambarie di Santo Stefano d’Aspromonte e dopo solenne benedizione, fu trasportato in cima da un elicottero statunitense decollato dalla base aerea di Sigonella in Sicilia. Dopo pochi anni, però la croce era mancante.
Negli anni successivi l’Associazione “Amici di Montalto” si prese cura della Statua del Redentore alla quale restituirono nel 2000 la Croce. Nel 2003, grazie alla Curia di Reggio, reinstallarono l’epigrafe, col tempo deteriorata, in materiale bronzeo più resistente alle intemperie.

Nel frattempo, il basamento, rivestito in pietra verde di Delianuova per la parte bassa e in pietra di Lazzaro per la parte alta, si era gravemente deteriorato col rischio che cedesse. Nel 2023 la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio ha incaricato l’impresa Priolo srl di Gambarie di intervenire. Il cuore del basamento è stato rifatto con materiali e tecniche attuali e reso più sicuro l’ancoraggio della Statua che potrà superare tranquillamente molti altri inverni.

Si ringraziano, per alcune foto particolarmente belle, Giancarlo Parisi e Massimiliano Pedi.

Sito Amici di Montalto

I lavori di manutenzione del 2023

Il libro su Montalto

L’eremita di Montalto