Dall’erica alle pipe
L’erica arborea è un arbusto sempreverde diffuso in Aspromonte. Spesso si associa al leccio formando oscure e dense gallerie. In dialetto detta “brivera”, che deriva dal francese bruyère. Dalla radice dell’erica si estrae il ciocco (a zzumpa in dialetto), un legno molto duro dal quale si ricavano pipe pregiate. In Aspromonte agli inizi del 1900 furono imprese tedesche e francesi ad avviare le prime attività industriali con decine di impianti sulla ionica e sulla tirrenica. Col tempo le maestranze locali acquisirono l’esperienza per mettersi in proprio tanto che sino agli anni ’70 del secolo scorso l’estrazione e la lavorazione del ciocco costituì un’importante risorsa per le popolazioni montane.
Nel 1995 ho conosciuto Micu Raso u Zuccaru, uno degli ultimi cioccaioli a Sant’Eusebio (San Giorgio Morgeto). Mi mostrò la zappaccetta (sciamarro in dialetto), l’attrezzo a due lame, una a forma di zappa per liberare il ciocco dal terreno e l’altra come un’accetta per tagliarlo dalla radice.
Per saperne di più ho visitato in quell’anno la fabbrica di pipe, ormai abbandonata, di San Lorenzo Marina.
Stabilimento creato negli anni ’50 che commerciava con Inghilterra, Stati Uniti, Sudafrica ma che subì negli anni ’80 una crisi determinata dalla diffusione della sigaretta e dai prezzi competitivi che aveva il ciocco proveniente da Spagna, Grecia, Corsica anche se di qualità inferiore. Resistette per alcuni anni importando ciocco da altre nazioni e poi producendo cassette di legno per l’ortofrutta, manici di legno ed altri materiali, sino a quando chiuse. Vi lavoravano oltre cento operai.
Il processo di lavorazione era lungo e laborioso. Il ciocco, giunto dalla montagna, veniva depositato
in un locale, ogni giorno andava bagnato e tenuto umido coprendolo con sacchi per evitare che si spaccasse. Nella segheria si selezionava il materiale per qualità (importanti sono le venature) ed il segantino individuava quanti abbozzi poteva trarre dal ciocco (solitamente 3-4). Poi si passava alla bollitura (14 ore continue) e l’acqua diventava rossa per il tannino che rilasciava il legno. Tolti dalla caldaia gli abbozzi venivano coperti con sacchi per evitare che raffreddassero bruscamente e spaccassero. Si lasciavano poi 5-6 mesi in essiccatoio.
In un altro fabbricato si lavorava l’abbozzo per ricavarne le pipe. Una macchina creava il fornello, una seconda la canna e una terza il fondo; poi il buco nella canna per inserire il bocchino e poi il buco nel fornello. Si lisciava con la pomice e si passava alle donne che la raffinavano ulteriormente con carta vetro di diversa grana. Si faceva un ultimo controllo e in caso di difetti rimediabili s’interveniva con stucco. Alcune venivano colorate. Si tornava poi ai tamponi (cotone) per lucidarle e risaltare le venature. In ultimo si marcavano (Italy) e s’imballavano in scatoli a dozzine.
Ora la fabbrica di San Lorenzo Marina è in abbandono. La Soprintendenza ha posto un vincolo come bene che non può cambiare destinazione d’uso ma andrebbe recuperato.
A conservare la maestria di quest’arte rimane a Reggio Calabria l’artigiano Fabrizio Romeo che in via S. Giuseppe, 87 ha il suo laboratorio. Discende da coloro che impiantarono la fabbrica di San Lorenzo ed è cresciuto in quei luoghi apprendendo l’arte dal padre Sebastiano e dai prozii Domenico e Peppe. Ora le sue pipe sono richieste in tutto il mondo.
Approfondimenti: un saggio di G. Pontecorvo-V. Lenzo tratto da Calabria Sconosciuta n 67/1195 https://drive.google.com/file/d/1j-DfZ8sPQtPHIGXFqt_4XNE6r-uc_UG_/view?usp=share_link
Un articolo del 1990 di un grande giornalista dell’epoca inviato in Aspromonte. Di pipe e di Fabrizio Romeo scrisse a chiusura dell’articolo https://www.laltroaspromonte.it/3d-flip-book/ricordare-aspromonte/
Infine una tesi di laurea consultabile alla biblioteca di Agraria dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria http://www.bibliotechecalabria.it/SebinaOpac/resource/produzioni-sostenibili-nel-parco-nazionale-dellaspromonte-analisi-della-potenzialita-dellutilizzazio/RCA0769195?sysb=RCAUNIRC&tabDoc=tabcata
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