di Joseph Moricca

Cronistoria.
Sul finire degli anni 60 del secolo scorso nacque l’idea di realizzare un invaso artificiale in Aspromonte. La previsione di una crescita considerevole della popolazione lungo la fascia costiera (che in realtà si rivelò errata) spinse i politici di allora a muovere i primi passi per la sua realizzazione i cui lavori iniziarono soltanto nel 1986. Il torrentello Menta, di cui nessuno in città aveva mai sentito parlare, improvvisamente balzò agli onori della cronaca essendo stato scelto per ospitare nel proprio bacino imbrifero il futuro lago artificiale. La scelta fu giustificata non tanto dalla “portata” del torrente (piuttosto esigua) quanto dalla posizione geografica, dalla notevole ampiezza e impermeabilità del suo bacino e dalla particolare natura e morfologia delle rocce in prossimità del futuro sbarramento (spalle e piano d’imposta).

Il progetto originario prevedeva inoltre di arricchire il “serbatoio” del Menta prelevando acqua forzatamente da altri due piccoli invasi da realizzare sui torrenti Ferraina ed Amendolea, situati entrambi a circa 100 metri più in basso rispetto all’invaso principale.
Notevoli furono le critiche sollevate in quel periodo da associazioni ambientaliste nazionali quali WWF, Legambiente, Lipu e locali come “Gente in Aspromonte”, oltreché da personaggi autorevoli come Fulco Pratesi, Franco Tassi e Antonio Cederna.
La costruzione della diga e delle opere connesse avrebbe comportato infatti lo stravolgimento di una delle aree tra le più rappresentative di flora e fauna aspromontane e la conseguente inevitabile compromissione del suo fragile ecosistema.

La mobilitazione degli ambientalisti produsse un paio di buoni risultati: intanto il ridimensionamento del progetto originario. Fu infatti abbandonata l’idea della costruzione dei due invasi minori (anche perché il loro contributo sarebbe stato di appena 2 milioni di metri cubi a fronte dei 18 già previsti per l’invaso principale) evitando così di devastare tanta altra parte di territorio. In secondo luogo, le proteste ebbero come conseguenza la riqualificazione “attenta” delle aree di cantiere dismesse, tant’è che oggi l’impatto visivo dell’opera è sufficientemente accettabile. Le ferite inferte, almeno in apparenza, appaiono ricucite e il contesto non sembra del tutto compromesso.

 

Le vicende recenti.
Nel 2015, dopo quasi trent’anni, la diga è stata finalmente ultimata. Il corpo dello sbarramento, alto 90 metri, è costituito da pietrame costipato (rockfill) reso impermeabile dal paramento di monte realizzato in materiale bituminoso. Il lago ha una estensione di circa 14 km quadrati con un potenziale volume d’acqua disponibile pari a 18 milioni di metri cubi.
Quest’opera è costata finora alla comunità qualcosa come 230 milioni di euro.
Il lago, oggi, ha buone probabilità di diventare attrattivo per aspetti turistico-sportivi. Se fossero regolamentate e promosse vi si potrebbero praticare pesca e canoa, oltreché sci di fondo lungo la strada perimetrale spesso ricoperta in inverno da abbondanti nevicate. Già da tempo, la zona è frequentata dagli amanti del trekking che, oltre a percorrere l’anello che circonda il lago, raggiungono più a valle le affascinanti e notorie cascate Maesano le cui acque alimentano il corso della fiumara Amendolea.

Dal 2018 l’acquedotto del Menta è ufficialmente in attività ma dei mille e più litri al secondo che dovrebbe fornire a regime, ad essere ottimisti, oggi, siamo al 60% della portata di progetto, senza tenere conto delle ancora numerose perdite lungo il tragitto causate dalla vetustà di gran parte delle condotte secondarie e dall’annosa questione degli allacci abusivi.
Non è stata attivata ancora la centrale idroelettrica prevista in località San Salvatore che produrrebbe circa 14 megawatt di potenza (il fabbisogno di energia elettrica per circa 15.000 famiglie).
È invece entrato in funzione il nuovo ed importante impianto di potabilizzazione realizzato per garantire il più alto livello possibile di purezza dell’acqua sotto il profilo chimico-batteriologico
Utile, infine la presenza di personale a sorveglianza dell’infrastruttura. I custodi, turnandosi, garantiscono un presidio h24 della diga, più volte rivelatosi vitale nel soccorrere escursionisti e turisti in difficoltà.

 

Conclusioni.
Reggio ha un’atavica sete d’acqua. Ciò in parte ha giustificato la realizzazione di questa controversa ed imponente opera idraulica. Va detto però che il motivo della storica carenza d’acqua è da ricercare non solo nella citata condizione di degrado della rete di distribuzione ma anche nei tanti errori commessi in passato tra cui soprattutto la scellerata cementificazione della fascia costiera senza risparmiare gli alvei e gli argini delle fiumare, fonte di approvvigionamento primaria delle falde acquifere presenti nel sottosuolo del comprensorio reggino. In breve tempo, senza il dovuto apporto, il livello di falda è sceso ovunque sotto quello della linea di costa consentendo all’acqua salmastra di infiltrarsi ed inquinare in modo irreversibile i serbatoi naturali di acqua sotterranea.

Ma oramai il danno è fatto e dunque questa diga, per i cittadini di Reggio e zone limitrofe, rappresenta oggi l’unica speranza di poter utilizzare in sicurezza l’acqua che sgorga dai rubinetti di casa. Tra l’altro, gradualmente si stanno dismettendo i pozzi e i dissalatori con un notevole risparmio in termini di energia e di risorse.
Sembra che la società che gestisce l’impianto (Sorical) si stia impegnando seriamente per portare a regime il funzionamento nella sua interezza.

Rimane essenziale che la cittadinanza vigili e faccia sentire più spesso la propria voce denunciando eventuali mancanze e disservizi. Siamo noi fruitori ad avere il diritto di conoscere costantemente lo stato dell’arte dato che paghiamo a caro prezzo un bene che lo Stato deve garantire ad ogni cittadino.
Ricordiamoci che questa risorsa è l’ennesima che l’Aspromonte rende disponibile per noi cittadini inurbati.

Si ringrazia per le notizie Stefano Sofi

 

Giuseppe Vottari è un fotografo che inizia a muovere i suoi primi passi nel mondo della fotografia nel 2013, studiandola in modo autonomo da autodidatta. Con il tempo, ha ampliato il suo campo di interesse, specializzandosi principalmente nella fotografia di paesaggio, ma anche in quella astratta, minimalista e di ritratto.

Oltre alla sua carriera fotografica, Giuseppe ha intrapreso anche un percorso accademico che lo ha visto laurearsi prima in Scienze Turistiche e successivamente in Valorizzazione dei Sistemi Turistico-Culturali presso l’Università della Calabria.

La passione per la fotografia è profondamente legata ad un’altra passione quella per la montagna. Un legame che nasce fin da piccolo, grazie a suo nonno, grande conoscitore dell’Aspromonte, che lo portava spesso in montagna. Successivamente, la stessa passione è stata condivisa con il padre e lo zio, creando così un legame familiare molto forte con quei luoghi. L’Aspromonte è per Giuseppe un ambiente familiare, ma anche un modo per “solcare i passi” e riscoprire in qualche modo coloro che sono venuti prima di lui. Ogni volta che può, sia da solo che in compagnia qualche amico, Giuseppe sale sulle vette di questa montagna per scattare fotografie o semplicemente per godersi una passeggiata.

Giuseppe considera l’Aspromonte una montagna maestosa, trascendentale, a tratti mistica e inaccessibile, ma che riesce comunque a offrirgli spunti di riflessione, tanto personali quanto fotografici, un luogo dove poter trovare risposte al riparo dai frenetici ritmi della società.

Suggerisco un’escursione adatta alla stagione invernale perché breve e senza copertura arborea. La meta sono i ruderi di una chiesetta poco conosciuta e intitolata a San Niceto, ubicata nel comune di Bova Marina. L’accesso non è agevole trovandosi su di una collina scoscesa. Grazie alla sensibilità del proprietario dell’area, avv. Amilcare Mollica, fratello del compianto prof. Edoardo, sono stati realizzati alcuni scalini e dei picchetti in ferro.

Vi sono stato la prima volta nel 1985 guidato dal prof Domenico Minuto e tornandoci di recente ho dovuto constatare lo stato precario in cui versa il monumento, con il lato ovest che sta per franare nel sottostante vallone. Andate a vederlo prima che scompaia!

Il sito è stato studiato sia per la chiesa datata al X secolo che per gli insediamenti preistorici tra il 1100 e il 900 a.C.

Della chiesetta e di come raggiungerla trovate qui dettagliata descrizione.

Del sito preistorico qui la relazione degli scavi condotti dal prof. John Robb.

Ai piedi della collina ove trovasi la chiesetta, immerso in un florido agrumeto, vi è l’ agriturismo Rio Rosa dell’ospitale avv. Mollica.

 

di Giuseppe Arcidiaco

A circa 2 km da Gambarie, al confine tra i territori di Reggio Calabria e di Santo Stefano d’Aspromonte, si trova il rudere di un edificio, riportato sulle carte topografiche dell’IGMI come Grotta di San Silvestro. Tale denominazione è, però, impropria in quanto non si tratta di una cavità naturale, bensì del catino absidale di quello che presumibilmente era stato un luogo di culto di epoca bizantino-normanna (databile attorno al XII secolo) collocato sull’antica via che collegava la marina di Gallico al profondo Aspromonte ed al santuario di Polsi.
Il manufatto sorge nella zona oggi denominata due fiumare, in quanto vi confluiscono i torrenti Chalica (anche detto Troia, asta principale del Gallico) e Mitta. Nessuna testimonianza o documentazione è stata, al momento, trovata riguardo la sua funzione, che rimarrà una questione aperta finché un’eventuale campagna di scavi archeologici non porterà alla luce le restanti strutture murarie, attualmente interrate. Sull’edificio, incassato alle pendici del monte Basilicò, aleggiano diverse leggende legate al Santo, il quale si sarebbe ritirato in meditazione in questi luoghi dell’Aspromonte oppure ivi rifugiato per sfuggire alle persecuzioni. Per tali ragioni gli sarebbe stata dedicata una chiesa. Tutto ciò è frutto della tradizione popolare e privo di fondamento storico, sebbene nei secoli l’Aspromonte sia stato la dimora di numerosi eremiti basiliani dediti al lavoro, alla preghiera ed alla contemplazione. La spiritualità orientale di rito greco, all’epoca diffusa tanto sulle coste ioniche della Calabria quanto nell’entroterra aspromontano, non era caratterizzata da grandi cenobi ordinati secondo regole monastiche scritte e ben definite; era, invece, molto spontanea e praticata da singoli eremiti ed asceti che trovavano riparo in romitori isolati tra le montagne, lontani dai centri abitati. Tesi alternative riguardo la funzione del rudere suggeriscono, infatti, l’iniziale presenza di una grotta naturale, rifugio del Santo o, più probabilmente, di qualche altro eremita, a cui sono state successivamente aggiunte strutture murarie per enfatizzarla, glorificarla o magari proteggerla dalle piene dei torrenti.

Papa Silvestro I, pontefice dal 314 d.C. al 31 dicembre 335 d.C. e venerato come santo dalla Chiesa Cattolica (si celebra l’ultimo dell’anno, giorno della ricorrenza della sua morte), visse ai tempi dell’imperatore Costantino che, stando alla leggenda, guarì dalla lebbra suscitandone la conversione al cristianesimo. Ma, più che a San Silvestro, la denominazione del rudere potrebbe essere legata al termine latino silva, che sta per selva o bosco; a tal proposito ricordiamo la Chiesa di Santa Maria del Bosco sita all’interno del centro abitato della vicina Podargoni. A favore dell’ipotesi dei resti di una chiesa bizantina, sono in parte visibili, all’interno dell’abside, due piccole nicchie simmetriche di forma rettangolare riempite di sedimenti, presumibilmente con le funzioni di pròthesis e diakonikòn. Nelle chiese di rito orientale, la pròthesis era la zona a sinistra del presbiterio (bema), dove venivano conservate le offerte della mensa eucaristica, mentre il diakonikòn, a destra, era destinato ai diaconi, alla raccolta delle offerte dei fedeli ed al deposito delle suppellettili sacre; entrambe le strutture erano generalmente dotate di abside. Nel rudere non è, invece, visibile il piano di calpestio perché completamente interrato. Inoltre, era consuetudine che l’altare fosse rivolto ad oriente; in questo caso, l’arco absidale, lievemente ogivale, risulta orientato ad est-nord-est (70°). I materiali utilizzati sono pietra e pomice lavica.

La presenza di una chiesa immersa nella boscaglia e lontana dai centri abitati è la testimonianza di una montagna profondamente antropizzata sia per l’industria boschiva, che reggeva l’economia di interi comuni, sia per i continui pellegrinaggi verso il santuario di Polsi da tutta la Calabria e dalla Sicilia. Risale al 1152 infatti un episodio narrato nella biografia di San Lorenzo di Frazzanò (Messina) che trovandosi a Santa Domenica di Gallico (RC) si recò a Polsi.
L’alveo del Gallico, ben diverso dall’attuale, era appunto tra le principali vie di comunicazione e di scambio, in particolare per chi attraversava lo Stretto per raggiungere l’Aspromonte.
Ora avvolto da una vegetazione impenetrabile nel passato il sottobosco era invece utilizzato per gli usi civici e persino il greto del fiume veniva coltivato, seppur stagionalmente, con le nasite, “piccole isole”.

La Grotta di San Silvestro può essere raggiunta da diversi punti (Podargoni, Mannoli, Santo Stefano, Basilicò) ma resi disagevoli per l’abbandono dei luoghi e il ritorno prepotente della natura che sta riprendendo gli spazi una volta curati dall’uomo. L’itinerario che suggeriamo ha inizio da Santo Stefano, evidente per un tabellone che lo illustra e posto sulla SP7 nei pressi della Fondazione Exodus.
Per la descrizione del percorso rimandiamo a pag. 237 del libro Passi, natura e storia in Aspromonte dal quale sono tratte le informazioni tecniche e costruttive relative al rudere.
Un luogo celato da una fitta vegetazione dove un antico manufatto, seppur misterioso, ci parla della ricchezza dell’Aspromonte.

Approfondimenti
L’episodio di San Lorenzo di Frazzanò è narrato nel libro Montalto, cima dell’Aspromonte
I dati dendrometrici dell’eucalipto sono riportati, insieme a molti altri alberi, nella Mappa degli alberi monumentali

Note: non esistendo immagini dell’ipotetica chiesa di San Silvestro, tra le figure si riportano le rappresentazioni di pianta, prospetti e sezione della Cattolica di Stilo, massimo esempio di architettura medio-bizantina calabrese, tratte da Charles A. Cummings, A history of architecture in Italy from the time of Constantine to the dawn of the Renaissance, 1901.
Si ringrazia Stefano De Luca

Frequento le nostre montagne sin dal 1980 con una certa continuità. Tra i numerosi interessi che ho avuto negli anni quello fotografico mi ha permesso di coniugare le due passioni ovvero trekking e fotografia.
Ho avuto modo di partecipare alle prime e principali organizzazioni associative di trekking in Aspromonte come Gente in Aspromonte, il G.E.A., il C.A.I. e le minori come Gruppo Archeologico dell’Amendolea, Grecanica Trekking e Kalabria Experience.
Un’altra passione che mi accompagna sin da quando ero adolescente è la curiosità prima e l’amore in seguito, per l’Africa. Ovviamente è molto generico parlare di Africa per le numerosissime etnie, culture e paesaggi che la compongono tuttavia dei numerosi viaggi fatti da nord a sud non ce n’è uno che mi abbia deluso.
Nel 2005 inizio la mia esperienza volontariato occupandomi di progetti realizzati in Niger per conto dell’associazione Bambini nel Deserto, in quel periodo pubblico un libro fotografico sui Tuareg del Niger.
Nel 2008 insieme ad altri amici fondiamo l’Associazione Gente d’Africa OdV e da allora mi occupo di seguire i progetti in Niger, Burkina Faso e Benin.
Fotografo da sempre con attrezzatura Nikon passando dalla Nikon FM (totalmente manuale e meccanica) alla ultima reflex Nikon D850.
I primi scatti sono stati principalmente realizzati in pellicola diapositiva ma una volta scoperto il digitale (nel 2005) ho iniziato a fotografare con la Nikon D70 e da allora devo ammettere di non essere mai più tornato indietro.
Purtroppo, il lavoro da fare per digitalizzare le diapositive dei miei primi scatti è impegnativo ma spero di riuscirvi.
Le immagini che vi presento sono monocromatiche perché attualmente mi sento più vicino a questa forma espressiva. Spero tanto possano trasmettervi curiosità e, perché no, anche qualche emozione.

I sentieri, le mulattiere, sono stati per secoli le arterie della montagna, lungo le quali è fluita la vita.
Il sistema viario che innervava l’Aspromonte ha subìto importanti trasformazioni soltanto dopo la decadenza delle vetture animali e l’uso quasi esclusivo dei mezzi meccanizzati, che hanno cancellato molti tracciati e hanno reso lontanissimi fra loro luoghi un tempo raggiungibili con molto minore difficoltà e fatica.

L’uso degli automezzi ha radicalmente cambiato tale viabilità. Con la realizzazione della strada statale e della ferrovia sulla costa e con lo spostarsi alla marina di molti servizi (scuole, sanità, ecc.) quasi tutte le strade o, comunque, le principali, convergono da più di un secolo sulla litoranea.
Il sistema ha subito un capovolgimento, è divenuto a pettine con i paesi che sono collegati alla costa ma non più tra loro. Gli abitanti di centri che si guardano da un versante all’altro di una vallata e che sino a meno di un secolo fa comunicavano agevolmente tra loro, ora devono scendere alla costa per una decina di chilometri, percorrere un tratto di strada statale e poi risalire per un’altra decina di chilometri sino al borgo dirimpettaio.
Inoltre, negli ultimi decenni, la progressiva desertificazione delle aree interne che ha reso disabitati diversi centri montani e la scomparsa dei lavori agricoli e artigianali che li rendevano viventi, hanno contribuito a rendere inaccessibili o del tutto cancellate molte antiche vie.

Geograficamente l’Aspromonte si può suddividere in due comprensori. Il Dossone della Melia, esteso dalla Limina, confine nord con le Serre, sino ai piani di Zillastro: una dorsale tabulare a forma di stretto istmo che si sviluppa lungo l’asse nord-est sud-ovest. Dai due bordi dell’esiguo pianoro si dipartono verso la Piana di Gioia Tauro e poi il Tirreno o verso lo Ionio, vallate fluviali fortemente incise. Il sistema viario è pertanto costituito da un’asse principale (la Via Grande, la Carrera) che segue facilmente e senza dislivelli la dorsale. Da questo si dipartono, dai due versanti, percorsi istmici che, seguendo i crinali, perdono rapidamente quota e conducono velocemente alle marine.  Un sistema a lisca di pesce!
La parte centrale del massiccio è un acrocoro, assimilabile a una piramide, a una zampa d’oca, solcato a raggiera dalle fiumare, corsi d’acqua a carattere torrentizio. L’asperità del paesaggio è addolcita dai piani, cioè da campi pianeggianti che, come immensi balconi, si affacciano sul mare. Proprio tali terrazzi costituivano un comodo raccordo tra le diverse vallate. Disposti quasi a corona, facevano quasi da alternativa alla dorsale tabulare. Tale uso è confermato da diversi toponimi quali Scala, Scalone a segnalare un salto di quota importante.

L’antica viabilità offriva, dunque, una facilità di movimento e una consuetudine a spostarsi lungo e attorno l’Aspromonte attestata dai racconti dei tanti santi, viaggiatori, soldati, artigiani, pellegrini, pastori che hanno camminato per questa montagna.
Anche la denominazione “arretumarina”, attribuita dagli abitanti di un versante al versante opposto, esprime come la montagna non fosse ostacolo, ma cerniera.

Delle antiche vie, cadute nell’abbandono, rimane purtroppo solo qualche tratto, ma sufficiente per apprezzare la maestria di chi le realizzò. Seguirle regala emozioni uniche.

Approfondimenti:

  • Antichi Passi, un libro sull’antica viabilità
  • Nel volume “Segni dell’uomo nelle Terre Alte d’Aspromonte” trovate il rilievo di una di queste antiche vie.
  • “Questo è Aspromonte” è una pagina FB e un canale YouTube dove Domenico Malaspina e Demetrio Orlando descrivono la loro metodica ricerca delle antiche vie.
  • Sulla viabilità antica del Mezzogiorno e della Calabria hanno scritto i prof. Gian Piero Givigliano e Pietro Dalena dell’Unical, per l’Aspromonte Domenico Raso, Enzo Spanò, Domenico Minuto, Giancarlo Cataldi ed altri.

No, tranquilli, non si tratta di un incendio nel cuore dell’Aspromonte.
È quanto riferiscono le cronache di oltre un secolo fa quando si credette che Montalto potesse essere divenuto un vulcano. Notizia che ho trovato sulla rete, probabile fake news, ma che ho voluto approfondire.
Effettivamente all’Archivio di Stato di Reggio Calabria (INV. 38, B. 25, N. 833) ho trovato la corrispondenza che pubblico.

Siamo nel gennaio del 1895. Appena due mesi prima, il 16 novembre del 1894, si era scatenato un terribile terremoto nel circondario di Palmi che aveva provocato danni, feriti e morti.
Le scosse sismiche si susseguirono per diverso tempo e la popolazione era in preda al terrore.
In questo clima di paura mista ad ignoranza si colloca quanto scrive il 24 gennaio del 1895 un certo signor Greco da Sant’Eufemia in un telegramma indirizzato al Prefetto di Reggio Calabria:

Contadini, reduci monti, esterrefatti riferiscono apertura cratere Montalto eruttante colonna fumo rosseggiante. Procederemo ispezione, riferirovvi. Avvisate Comitato”.

L’indomani Michele Fimmanò, Regio Commissario per la gestione dell’emergenza terremoto, aggiunge particolari telegrafando, sempre da Sant’Eufemia, al Prefetto:

“Seppi stamane via Delianuova che tre contadini colà arrivati narravano delle cime di monti prospettanti Montalto aver osservato che dalla sommità di esso monte veniva fuori un enorme colonna fumo rosseggiante simile ad un pino piegantesi a terra col vento, e che poi si raddrizzava. I tre contadini tornavano Delianuova esterrefatti. Non le ho telegrafato perché fenomeno fumo simile ad un pino, forma osservata Plinio anno 79 Cristo, Vesuvio, mi ha sorpreso ed ho disposto esplorazione domani facendola intesa risultati”.

La notizia, quindi, prende sempre più corpo e rimane solo da attendere che gli esploratori compiano la loro missione. Nel frattempo, la paura si diffonde tra la popolazione.

Ma il terzo, e anche ultimo, telegramma del Regio Commissario il 26 gennaio recita:

“Esploratori mandati osservare Montalto ritornano senza essersi potuti avvicinare immensa quantità neve caduta. Da Delianova mi arrivano notizie che luoghi presso Montalto da più tempo osservavansi fenditure del suolo in senso trasversale, rispetto al corso di fiumi e che in quella località vi furono sempre scoscendimenti e frane. I rombi che spesso si avvertono pare procedano dal Montalto, e ier sera ore 18,50 fu avvertito rombo enorme, mugghiante accompagnato vivo bagliore. A saper cosa occorre tempo sereno e che neve dacciata (ndr “ghiacciata”) permetta potervisi avvicinare.”

Rimase perciò un mistero cosa fosse la “colonna di fumo rosseggiante” e il “rombo enorme, mugghiante accompagnato vivo bagliore”.
Quello che possiamo affermare con certezza è che Montalto non fu mai un vulcano se non per un fenomeno di suggestione collettiva.
Insomma, una fake news di oltre un secolo fa.

P.S.: appena 6 anni dopo, nel 1901, proprio sul Montalto venne tranquillamente installata la statua del Redentore.

A proposito di un vulcano in Aspromonte altrettanto falso è che alcune pietre con caratteristiche vitree ritrovate nell’area di Ferraina siano lava. Lo ha spiegato di recente il prof. J. Robb.

di Luigi Dattola

L’Aspromonte offre spesso spettacoli naturali poco noti ai più. Da qualche decennio, però, grazie anche all’iniziativa di gruppi escursionistici organizzati, associazioni e/o di singole persone interessate al territorio calabrese per i suoi molteplici aspetti, si sta riscoprendo una Calabria poco conosciuta in ambito italiano se non addirittura nello stesso ambito regionale. A volte basta poco per riscoprire un luogo, farlo conoscere ed apprezzare sia per il suo interesse naturalistico che per quello scientifico in senso stretto.

Si trova riportato in un volume scritto da Melograni, “Descrizione geologica e statistica di Aspromonte e sue adiacenze” del 1823, di alcune miniere di rame lungo il corso del torrente Valanidi che, gestite dai tedeschi, avevano fornito minerale alle fonderie di Reggio Calabria. Tuttavia, a parte il minerale estratto dal cunicolo lungo la Stroffa, affluente del Valanidi, le ricerche non avevano dato esito ed erano state per questo abbandonate.
Tale argomento, comunque, doveva aver avuto un certo rilievo dal momento che diversi autori ne avevano fatto cenno, tra questi De Stefani nel 1883 ed Emilio Cortese, nel suo volume “Descrizione geologica della Calabria” del 1935, ancora oggi ricco di interessanti spunti per ricerche di natura geologica nel territorio calabrese.

La località si trova nelle vicinanze il centro abitato di Trunca ed era stata esplorata con rilievi di superficie e, come già accennato, attraverso la realizzazione di piccoli cunicoli scavati a mano nella dura roccia metamorfica che caratterizza i luoghi.
Fatti di questo genere, in una regione che raramente ha visto l’interesse per lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo, oggi fanno certamente notizia, immaginiamo quanto risalto abbia potuto avere 150-200 anni fa e oltre.
I racconti relativi a tali ricerche, infatti, sono ancora oggi vivi fra gli abitanti del posto, anziani o giovani che siano e si tramandano di padre in figlio come fossero leggende, qualche volta ingigantendo la realtà.
Prima ancora di avere tra le mani testi che mi facessero conoscere l’esistenza di vecchie ricerche di rame ho avuto la fortuna, in una delle mie tante esplorazioni mineralogiche, di conoscere persone del luogo che mi posero la domanda: “circati a petra virdi?”. Di lì a poco mi trovai davanti a un anziano signore che abitava nella piccola frazione di Sapone che mi diele le informazioni per raggiungere un posto “speciale”.

Le indicazioni e le descrizioni avute lasciavano facilmente intuire la possibilità di rinvenire, quantomeno, mineralizzazioni interessanti. Con le informazioni appena ricevute la mia escursione proseguì lungo il torrente e, venendo fuori da una zona invasa dalla vegetazione, mi trovai davanti uno spettacolo tanto straordinario quanto insolito: una porzione di costone roccioso dalla colorazione verde-blu molto accesa che spiccava sullo sfondo scuro. Da alcune fratture della parete rocciosa trasudava acqua ricca di composti del rame e del ferro (carbonati e solfati idrati). Poco a monte, inoltre, rinvenii azzurrite e malachite che riempivano le piccole fratture della roccia.

È evidente come ciò rappresenti un fenomeno di rilevante interesse scientifico, trattandosi di un ambiente di neoformazione per alcuni minerali che, tante volte, si cerca di ricostruire in laboratorio con costi elevati, ma anche un luogo di grosso interesse naturalistico ed estetico.
Altre volte mi sono recato sul posto a prelevare campioni da sottoporre ad analisi e per condurvi docenti dell’Università della Calabria che hanno mostrato interesse per il fenomeno. Dalle ricerche e dalle analisi compiute presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’UNICAL oggi sappiamo che, oltre alla malachite e all’azzurrite, si è identificata la calcantite la serpierite e la woodwardite, minerale esteticamente non pregevole ma raro.

Didascalie dei campioni minerali
2 Azzurrite su matrice rocciosa costituita da gneiss. Campione 15x9cm
3 Associazione di microcristalli di azzurrite. Campo inquadrato: 5mm circa
4 Microcristalli di calcantite. Campo inquadrato: 4.6mm circa

Fonti

  • Cortese E. (1934). Descrizione geologica della Calabria. Tipografia Mariano Ricci, Firenze (ristampa della I edizione del 1895).
  • De Stefani C. (1882). Escursione scientifica nella Calabria (1877-78). Jejo, Montalto e Capo Vaticano. Atti della Reale Accademia dei Lincei, serie 3, Memorie, Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali, 18, pp. 3-290.
  • Melograni G. (1823). Descrizione geologica dell’Aspromonte e sue adiacenze con aggiunta di tre memorie concernenti l’origine dei vulcani, le grafiti di Olivadi e le saline delle Calabrie, nella stamperia Simoniana, Napoli.

Nei pressi interessante la Grotta della Lamia

 

Il castagno era detto l’albero del pane dei poveri o albero della vita dato che i suoi frutti sono stati per secoli un alimento fondamentale nelle regioni montane.
Da un’attenta indagine del prof. Angelo Gligora abbiamo il racconto di come nel secolo scorso anche ad Africo avesse enorme importanza la castagna, cibo fondamentale per tutto l’inverno. La presenza di un esteso castagneto comunale era una risorsa vitale per gli africoti.
Ecco quanto ci hanno raccontato ad Africo Nuovo nel novembre 2024, con dovizia di particolari, le signore Maria Nocera di Africo e Concetta Palamara di Casalnuovo (frazione di Africo), ultranovantenni, che ringraziamo per la preziosa testimonianza.
La voce rotta dall’emozione e gli occhi lucidi sono segno delle sofferenze, delle indicibili fatiche provate ad Africo dove sono nate e vissute fino all’alluvione del 1951.

“Ad Africo Vecchio c’era un grande castagneto di proprietà del Comune con delle piante secolari che per la sua qualità dava una produzione importante per poter superare il periodo invernale. Per venire incontro alle famiglie meno abbienti l’amministrazione comunale ne consentiva la raccolta senza alcun pagamento. Gli abitanti che volevano raccogliere le castagne dovevano fare domanda al Comune per avere l’assegnazione delle piante per nucleo familiare.
Il Comune nel mese di settembre incaricava un suo addetto (u stimaturi) a recarsi sul posto dove stimava e assegnava le piante di castagno in proporzione al numero dei componenti del nucleo familiare richiedente. L’estimatore nella sua funzione di persona di fiducia del Sindaco indicava anche il periodo utile per la raccolta che andava dal 1° di ottobre al 1° di novembre. Durante questo mese interi nuclei familiari, grandi e piccoli, si spostavano dal paese al castagneto che brulicava di persone intente alla meticolosa raccolta del prezioso frutto.
Dal 2 di novembre, giorno della Commemorazione dei Defunti, il Comune con i suoi uffici dava notizia che il castagneto era libero (dai vincoli precedenti), l’assegnazione alle famiglie cessava e quindi tutta la popolazione poteva raccogliere le castagne che erano rimaste sul terreno, sugli alberi e quelle che cadevano giornalmente.
Il castagneto, pertanto, si ripopolava di cittadini, che magari per aumentare la quantità già raccolta accorrevano in massa.
Dei tignanisi, gli abitanti della frazione di Casalnuovo, in pochi beneficiavano del castagneto comunale. Utilizzavano, chi li possedeva, castagni privati, fuori dal centro abitato e in posti lontani e di difficile accesso.

La castagna rappresentava un alimento indispensabile per tutta la popolazione, perché si consumava fresca durante tutto l’inverno, ma era molto importante per quanti dovevano andare a coltivare i terreni o allevare gli animali fuori dal centro abitato. Costituiva il pranzo per tutta la giornata.
Le castagne si prestavano a diversi usi: caldarroste, bollite ma principalmente infornate. Molto importante per la conservazione delle castagne fresche era la cosiddetta infossata o ‘mpossata.

Anzitutto si individuava il posto, un albero possibilmente vicino la propria casa sotto il quale si dovevano infossari le castagne. Per timore che potessero essere rubate alcuni le infossavano dentro casa facilitati dal fatto che il pavimento era in semplice terra battuta.
La conservazione avveniva con molta cura scegliendo le castagne migliori, senza intaccature e compatte. Si scavava una fossa delle dimensioni adeguate alla quantità di castagne e si portava della sabbia dalle fiumare che si disponeva nel fondo della fossa. Vi si appoggiava uno strato di castagne, si ricoprivano con la sabbia e si mettevano altre castagne. Si continuava così, alternando uno strato di castagne e uno di sabbia sino a colmare la fossa.
La corretta esecuzione del procedimento era molto importante perché faceva scivolare l’acqua piovana evitando che le castagne marcissero e conservandole per diversi mesi.
Il sistema utilizzato consentiva di avere le castagne nel periodo delle festività natalizie potendo così preparare il castagnaccio, uno dei pochi dolci che ci si poteva permettere.”

Per conoscere la pratica dell’infossata sono stati intervistati altri anziani vissuti ad Africo Vecchio tra cui Domenico Criaco detto Micciarella del ’39, Francesca Pangallo del ’34, Leo Criaco detto Cropò del ’45, Andrea Stilo del ’32, Giuseppe Criaco detto u Velenusu; Antonio Criaco detto u Centu; Domenica Morabito detta a Tabarana. Li ringraziamo tutti.

Pubblichiamo una foto aerea del 1983 dove, oltre ai ruderi di Casalnuovo in alto a sinistra e quelli di Africo in basso a destra, un quarto dell’immagine (in alto a destra) ritrae l’ampio e fitto castagneto.

Foto, descrizione e alcune piante monumentali del castagneto di Africo

Sin da bambino, ho sentito il richiamo del cielo, e col tempo, la passione per l’astronomia ha incontrato il mio amore per la natura, trasformandosi in astrofotografia. Questa forma d’arte consiste nel catturare i soggetti cosmici – galassie, nebulose e stelle lontane – raccontati attraverso la luce. Mentre nella fotografia tradizionale basta un singolo scatto, nell’astrofotografia ogni esposizione può durare ore (spesso suddivisi in molte notti), raccogliendo pazientemente fotoni che hanno viaggiato per centinaia di milioni di anni luce.
L’Aspromonte è diventato il mio osservatorio a cielo aperto, un luogo dove la terra si protende verso l’infinito e ogni notte si riempie di storie antiche e segreti cosmici. Qui, tra le sue valli selvagge e i boschi intricati, le stelle sembrano più vicine, come antichi custodi silenziosi. Le cime aspre emergono contro il cielo e la loro bellezza parla con voce muta di un tempo remoto. In queste notti solitarie, la montagna sembra respirare insieme alle stelle, avvolta in un maestoso silenzio. Durante le osservazioni notturne, talvolta, la presenza curiosa di una volpe che mi osserva da lontano, come un guardiano silenzioso della notte.

Il telescopio, fissato su una montatura equatoriale motorizzata e collegato a una fotocamera astronomica raffreddata a -10° C, (la bassa temperatura aiuta a ridurre il rumore termico generato dai pixel attivi che si riscaldano durante l’acquisizione e che si trasformerebbe in segnale indesiderato), segue con precisione l’apparente movimento delle stelle dovuto alla rotazione terrestre. Questa precisione è essenziale: senza un inseguimento accurato, le stelle apparirebbero come scie luminose.
Ogni immagine finale è il frutto di un lungo processo: le esposizioni prolungate, vengono elaborate tramite software specifici per eliminare disturbi, migliorare i dettagli e bilanciare i colori. Inoltre, è possibile acquisire dati in LRGB (luminanza, rosso, verde e blu), una combinazione che riproduce i colori in modo simile alla visione umana. Ogni fase del lavoro richiede attenzione e competenza: dalla calibrazione delle immagini alla combinazione dei diversi scatti, fino all’estrazione dei dettagli nascosti nel profondo della luce cosmica.
Questo tipo di fotografia richiede notevole pazienza, poiché si utilizzano strumenti di altissima precisione che richiedono una preparazione accurata. È fondamentale inserire le coordinate esatte del luogo di ripresa e l’orario preciso, stazionare il telescopio, e ambientarlo affinché la sua temperatura si allinei a quella esterna, eliminando le distorsioni termiche.

Tra dei miei scatti più significativi vi sono la Nebulosa Proboscide di Elefante nella costellazione di Cefeo e la Nebulosa di Orione, catturate sotto il meraviglioso cielo d’Aspromonte. Sono il risultato di 11 ore di esposizione per la prima e circa 60 ore per la seconda. Queste fotografie, pubblicate anche dalla NASA, raccontano una storia millenaria, un frammento di universo che ha viaggiato nel tempo per giungere fino a noi.
Così, l’astrofotografia diventa un viaggio tra tecnica e arte, dove ogni scatto, ogni dato e ogni ora trascorsa sotto il cielo si uniscono per raccontare l’eternità racchiusa nelle stelle ed il legame profondo che ci unisce all’universo.