Un gustoso racconto dai toni eroici, tipico dell’epoca. Tratto da Teofilo Maione, A.S.C.I. Scoutismo cattolico a Reggio Calabria, Città del Sole Edizioni.
Ecco una mia sintesi con tappe e tempi ma vi invito a leggere l’intera cronaca che riporto nelle immagini delle pagine del libro.
Partiti in 22 da Reggio Calabria alle ore 5 del 28 settembre 1915 sotto la direzione dell’ing. Andreoni giungono in treno a Bagnara. Al loro arrivo trovano il prof. Valbusa andatovi in precedenza per i preparativi, ed insieme ad esso ad attenderli il Consigliere comunale sig. De Leonardis e molti studenti dell’Istituto Tecnico e Liceo colà in vacanza. Vengono quindi ricevuti al Palazzo Comunale dal gentilissimo dott. Pignataro che offre prodigalmente rinfreschi e dolci. Visitata la bella sede comunale e scambiati auguri e ringraziamenti partono alle ore 8,30 per la montagna.
Transitando da Covala, Passo della Signora, Passo della Tavola alle ore 15 arrivano alla segheria De Leo in Aspromonte dove “li aveva preceduti il Capo squadra Ferrari che già aveva provvisto a mettere a fuoco la carne che fumava in modo consolante in una grande marmitta”.
Prima della cena però salgono al monumento di Garibaldi. Pernottamento alla meglio nella segheria.
“Al mattino del 29 prima di giorno erano tutti lestamente in piedi”. Si dividono in due gruppi. I più giovani alle 5.30, “dopo sonori urrà e squilli di tromba senza fermate alla 8.30” rientrano a Bagnara.
In 5 prendono la via della montagna e attraverso “la cresta di Monte Petrona e seguendo sempre il displuvio per il Monte Cuddeo” (ndr Caddeo) giungono alla vetta del Montalto per le 13.
“Ivi fecero una lunga e beata sosta godendo della magnificenza del sole e dell’immenso panorama che di lassù si ha sul Tirreno e sullo Jonio”. Dai Piani dei Reggitani sono a Polsi alle ore 19. Nonostante la grande affluenza di pellegrini il Superiore don Giosofatto Mittiga trova loro alloggio.
Al mattino del 30 partono “alla volta di Bovalino discendendo in tutta la sua lunghezza la Vallata della Fiumara Bonamico”. Il mattino del 31, col treno Diretto delle 6.25 erano tutti di ritorno a Reggio.

Il racconto pubblicato da Maione è apparso sulla rivista del CNGEI del 1915 e sul Corriere di Calabria diretto da Orazio Cipriani del 9 settembre 1915. Si ringrazia per i documenti forniti il giornalista dr. Filippo Praticò.
Altre storie sullo scoutismo a Reggio Calabria nel fascismo

Laureato all’Istituto Superiore per Interpreti e Traduttori di Firenze e in Scienze Politiche (indirizzo Internazionale) all’Università di Firenze, risiede attualmente a Catanzaro e fonda nel 1995 I Viaggi di Zefiro, Tour Operator specializzato in viaggi culturali ed esperienziali in Calabria, Italia e all’estero.
Appassionato di viaggi, di fotografia da reportage, di escursionismo, è un profondo conoscitore della Calabria e dei suoi angoli più remoti, della sua gente e delle sue tradizioni, sempre alla ricerca del genius loci dei territori. È un convinto ambasciatore della sua terra e ama raccontarla per immagini, attraversandola in lungo e in largo, a piedi, in auto o con i tour che organizza, sempre alla scoperta di prospettive inconsuete e nuove storie da ascoltare al di là dei luoghi comuni.
La sua idea di Calabria: una terra ’non ordinaria’, del non-finito e dell’infinito, del possibile e dell’impossibile, di una bellezza selvatica che lascia senza fiato.
Si avvicina ai social 10 anni fa, per curiosità e divertimento, e scopre le grandi potenzialità di comunicazione e scambio culturale che essi offrono oltre che l’opportunità di intercettare tendenze, personaggi, eventi e storie. I canali che predilige sono Facebook e Instagram (con lo pseudonimo @impattozero), dove pubblica frequentemente i suoi racconti fotografici e condivide suggestioni e la grande passione per la sua terra di origine.

Erano gli anni ’90 del secolo scorso e avevo creato la cooperativa Nuove Frontiere, prima struttura nel sud Italia che offriva servizi nel turismo naturalistico trasformando così la mia passione in attività professionale. Questo in una montagna, l’Aspromonte, che da problema stava divenendo risorsa.
Erano ormai diverse le sezioni CAI del nord Italia e anche qualche gruppo di tedeschi che camminavano in Aspromonte.
I pernottamenti, tuttavia erano in tenda, eccetto il primo e l’ultimo giorno, o al meglio in caselli forestali non attrezzati per l’ospitalità. Insomma, il comfort era minimo.
Il salto di qualità si ebbe ispirandoci a Edward Lear, un viaggiatore inglese che peregrinò per l’Aspromonte nel 1847 lasciando splendidi acquarelli e un gustoso diario dove scrive:
“Il sistema di viaggio che io e il mio compagno adottammo … era il più semplice ed anche il meno costoso: abbiamo; infatti, compiuto l’intero viaggio a piedi (…) in Calabria, un asino per caricarvi quel po’ di bagaglio che avevamo portato con noi, ed una guida (…) Poiché in quelle province non ci sono alberghi (…) il viaggiatore deve sempre contare sull’ospitalità di qualche famiglia, in ogni città che visita”.
La sua formula fu il nostro obiettivo. La scintilla che avviò il coinvolgimento degli abitanti dei paesi scoccò per l’incontro casuale tra un mio gruppo di escursionisti e i giovani della neonata cooperativa San Leo di Bova. Questi raccontano: “Il primo gruppo di persone che abbiamo avuto veniva da Roghudi guidati da Alfonso Picone Chiodo di Nuove Frontiere e ci chiese da mangiare perché c’era stato un malinteso con il pastore con il quale avevano l’accordo” “Avevamo un negozietto per vendere frutta e verdura. Alfonso ci chiese: se non c’è un ristorante, almeno potete farci un’insalata? Potete fare altro? E da lì poi è iniziata l’interazione”.
L’idea andava però strutturata. Nel 1993 ci venne in aiuto il WWF Italia che incaricò la società Eco&Eco di elaborare il progetto “Ospitalità diffusa in Aspromonte orientale”. Prendendo spunto dalla formula adottata da Lear bisognava creare un’offerta per il turismo escursionistico, caratterizzata dall’uso delle abitazioni nei paesi come strutture di accoglienza per il vitto e l’alloggio dei visitatori. Il progetto per realizzarsi necessitava non tanto di investimenti, quanto di capacità, motivazioni, disponibilità all’iniziativa, spirito di collaborazione. Un progetto che fu di stimolo per la società civile della zona e strumento di promozione delle energie sociali presenti in quei paesi dell’Aspromonte. In particolare, dimostrò come una iniziativa di sviluppo compatibile possa fondarsi sulle risorse ambientali e umane presenti nell’area, opportunamente organizzate e coordinate.
In questo processo ci fu di aiuto il programma europeo di animazione CADISPA, (Conservation And Development In Sparsely Populated Areas) grazie al quale coinvolgemmo la gente dei paesi e per prime le donne. Recuperarono e riadattarono parte dell’inutilizzato patrimonio abitativo ma soprattutto aprirono le loro case al turista che divenne ospite offrendogli un’esperienza coinvolgente a contatto con la cultura e le tradizioni delle popolazioni aspromontane. E fu anche importante per quanti vennero coinvolti che acquistarono dignità e consapevolezza del valore della propria cultura, sino allora negletta.
Col Sentiero dell’Inglese avevamo inventato l’Ospitalità Diffusa.
Il Cammino è lungo circa 110 km, suddiviso in 6 tappe giornaliere immerse nella macchia mediterranea punteggiata da suggestivi scorci panoramici sul mar Ionio e le caratteristiche fiumare. Attraversa i paesi di Pentidattilo, Bagaladi, Amendolea di Condofuri, Bova, Palizzi, Pietrapennata e Staiti con singolari impianti urbanistici e pregevoli monumenti, ricchi di storia e tradizioni. Ma nonostante tali interessi la principale caratteristica del Sentiero dell’Inglese non è l’ambiente ma la gente. In un mercato turistico dove le offerte proposte sono spesso avulse dal territorio che si percorre, il Sentiero dell’Inglese coinvolge direttamente le popolazioni locali.

Ma non era finita lì. Nel 2019 il Cammino ha conosciuto una nuova rinascita grazie all’impegno congiunto di Naturaliter, che ha gestito e potenziato l’eredità di Nuove Frontiere, e Compagnia dei Cammini, che hanno lavorato per ridisegnare il percorso, aggiornare la segnaletica e offrire nuovi servizi ai viaggiatori. Da allora, il Sentiero dell’Inglese è divenuto uno dei cammini di maggior successo del meridione d’Italia ospitando migliaia di turisti provenienti da tutto il mondo con decine di guide che accompagnano ed anche escursionisti che si muovono autonomamente. Ha quindi stimolato il territorio nella nascita di piccole realtà imprenditoriali, rifugi, agriturismi, ricettività, ristorantini. Un considerevole impatto economico che ha consentito a diversi giovani di rimanere a lavorare nella propria terra e dare una speranza al futuro di alcuni paesi dell’interno.
Sentiero dell’Inglese: un cammino lungo trent’anni.

Approfondimenti.
Trovate descrizione delle tappe, alloggi, mappa escursionistica e altre info nel
sito ufficiale del Sentiero dell’Inglese

Una guida cartacea è stata realizzata da Aspromonte Lab
https://aspromontelab.bigcartel.com/product/asproguida-il-sentiero-dell-inglese

Un articolo del 1995 sulla Rivista della Montagna
Progetto società Eco&Eco “Ospitalità diffusa in Aspromonte orientale”

Edward Lear: biografia, viaggio in Aspromonte e disegni in https://www.laltroaspromonte.it/storie/edward-lear-diario-di-un-viaggio-a-piedi/

La Calabria del XIX secolo ospitò numerosi viaggiatori stranieri attratti dal fascino per il suo passato magnogreco e dal mito romantico del brigantaggio; nonostante ciò, molte zone del meridione calabrese rimasero a lungo inesplorate ed ignote a livello europeo. Una delle ragioni principali che mosse intellettuali e artisti del tempo ad intraprendere il viaggio verso l’estrema punta dell’Italia peninsulare – all’epoca denominata “Calabria Ulteriore Prima” – fu, dunque, la volontà di conoscerne luoghi, tradizioni, costumi ed opere d’arte per loro inediti. Tra i più celebri si deve citare l’inglese Edward Lear (Highgate, Londra 1812 – Sanremo 1888), illustratore, artista, musicista e scrittore vittoriano, autore di raccolte di numerosi diari di viaggio, ricordato per il suo talento naturale per il disegno. La sua arte fu apprezzata dalla famiglia reale inglese tanto che in alcune occasioni insegnò disegno alla regina Vittoria.
Compì viaggi in diverse regioni per l’epoca considerate esotiche come Grecia, Albania, Isole del Mar Jonio e Corsica pubblicando diari arricchiti da splendide illustrazioni.
Lear è ricordato anche per la sua vasta produzione di limerick (versetti umoristici “nonsense”), raccolti nell’opera “A Book of Nonsense” (1846) e per i suoi scritti di botanica ed alfabeti “nonsense” che nel 1870 riunì nel libro “Nonsense Songs, Stories, Botany and Alphabets”. Come pittore naturalista pubblicò una delle sue più belle opere zoologiche illustrate, dedicata ai pappagalli: “Illustrations of the family of Psittacidae or Parrots”.
Verso la fine degli anni ‘30 del 1800 si trasferì a Roma e, da lì, cominciò a viaggiare per l’Italia visitando, negli anni successivi, il Lazio, l’Abruzzo, il Molise. Nel 1847 dalla Sicilia raggiunse Reggio Calabria e ne visitò la provincia: una spedizione durata dal 25 luglio al 5 settembre, che lo condusse, insieme all’amico John Proby, sotto la guida locale di Ciccio e del suo asino, da una costa calabra all’altra attraverso i sentieri dell’Aspromonte. Un’esperienza che lo colpì molto per la scoperta di luoghi carichi di storia, per i villaggi siti in luoghi quasi inaccessibili, per i panorami così diversi da quelli anglosassoni. Le sue celebri memorie, “Journals of a landscape painter in Southern Calabria” pubblicate nel 1852 a Londra e tradotte in italiano nel “Diario di un viaggio a piedi”, rappresentano forse il primo resoconto illustrato di un’esplorazione della provincia di Reggio Calabria, un ritratto a tutto tondo di questa terra e dell’indole dei suoi abitanti.
Malgrado la fama europea di regione arretrata, aspra e pericolosa, Lear rimase colpito dalla cordialità ed ospitalità dei calabresi, ereditata dalle civiltà classiche del passato e, pertanto, considerata sacra. Il viaggio, ad anello, iniziò e si concluse a Reggio Calabria attraversando borghi grecofoni, colline, grandi fiumare, maestosi uliveti secolari ed agrumeti.
Nella sua opera Lear restituisce con efficace realismo paesaggi di grande suggestione, ritratti con ricchezza di dettagli in incisioni basate su schizzi o acquerelli realizzati durante il viaggio e racconta scene di vita di una Calabria immersa nel contesto storico del Risorgimento. Le insurrezioni che presto sarebbero sfociate nei moti rivoluzionari che interessarono il Regno di Napoli nel 1847 costrinsero Lear ad interrompere il viaggio, impedendogli di visitare le restanti province calabre. Ci ha lasciato però il ritratto di un altro Aspromonte.
Alcuni editori hanno stampato il suo “Diario di un viaggio a piedi” e diverse opere sono state curate dal saggista Raffaele Gaetano, massimo esperto di Lear. Dalla sua opera “Per la Calabria selvaggia” del 2022 per Laruffa Editore sono tratti molti dei disegni pubblicati nel sito.

Approfondimenti
Interessante confronto tra alcuni disegni di Lear e lo stato attuale dei luoghi
Saggio sull’opera di Lear a cura della prof. Francesca Paolino

In tempi recenti il viaggio di Lear, ribattezzato Il Sentiero dell’Inglese, è stato riscoperto e valorizzato divenendo il trekking più frequentato dell’Aspromonte.
Ma questa è un’altra storia che potete leggere in https://www.laltroaspromonte.it/storie/il-lungo-cammino-del-sentiero-dellinglese/

No, non è la sorella del coniuge. Per i non calabresi spieghiamo che cugnata, da cugno=cuneo, è l’accetta, compagna inseparabile del pastore. Oltre all’ovvio uso come strumento da taglio le foto ne documentano altri come bastone o impensabili come sgabello.
O usata come martello, dalla parte opposta della lama, per percuotere “cuzzuliari” (da cozzo, retro dell’accetta) i campani delle capre e accordarli armonicamente.
Un’immagine di Francesco De Cristo del 1932 ritrae un pastore d’Aspromonte con un’accetta dal manico più lungo rispetto a quello oggi in uso in questa montagna. Di analoghe dimensioni, detta gaccia, si usa oggi nelle montagne di Verbicaro dove la vedete impugnata da ‘zi Felice Lucchese e dall’amico Francesco Bevilacqua. Il lungo manico facilita il taglio di rami dagli alberi per foraggiare con le fronde gli animali ma è anche un’arma micidiale.
Necessarie per mantenerla affilata sono le mole.
Infine, la progenitrice di tutte le accette attuali: l’ascia preistorica in bronzo come quella da me trovata in Aspromonte circa due anni fa. Ma ancor più antiche sono le asce in pietra.
Per esempio, l’ascia del Paleolitico inferiore trovata nel 1925 a Pietra Salva (Delianuova) dal prof. Francescantonio Leuzzi. Nella foto scattata dal Leuzzi quasi un secolo fa si nota la mancanza di copertura arborea tale da rendere imponente il masso, nascosto invece ora da un fitto bosco.
O ancora le asce di pietra del Neolitico che furono trovate a Roccaforte del Greco, Bova e Roghudi nei primi anni del Novecento ed esposte al Museo Etnografico Pigorini di Roma.
Chiamate cugni i lampu secondo la tradizione popolare che riteneva fossero oggetti generati dai fulmini, questi fulmini pietrificati venivano spesso conservati come amuleti, perché si credeva che portassero fortuna o protezione.
Concludo con un gustoso episodio che ha come protagonista l’accetta. È tratto da Mio nonno Rocco di Rocco Palamara. Racconta di uno scontro tra casalinoviti
“La cosa li spiazzò anche perché l’uomo che si trovarono davanti era completamente nudo e con una grossa scure sottomano. Nella fretta del momento mio nonno aveva optato per l’ascia anziché le mutande e pur tuttavia, propenso più alla pace che alla guerra, domandò loro sinceramente:
– Dite a me, quanti litri volete?
– C’è lo deve dare tuo figlio il vino! – gli urlo u ‘Nnicu lanciandosi in avanti per introdursi dentro casa.
Allora mio nonno, passando alla seconda opzione, alzò la scure e gli assestò un colpo talmente micidiale da spaccarlo in due se non fosse che l’altro, nel suo slancio in avanti, superò la lama e la botta la prese solo di manico.”

Fonti: Bollettino di Paletnologia italiana anno 1933; Rovine di Calabria di F. Nucera

A distanza di un anno dalla epica risalita delle Tre Fiumare venne intrapresa una nuova avventura. Un viaggio a piedi dal mar Jonio al mar Tirreno attraversando il cuore del massiccio aspromontano.
La preparazione fu meticolosa iniziando ben sette mesi prima con la ricerca di sponsor, la scelta dell’attrezzatura, l’allenamento, la composizione della squadra.
Anche questa volta si trattò di un viaggio faticoso e non privo di pericoli oggettivi che il gruppo coeso però seppe affrontare fin dall’avvio alla foce della fiumara La Verde risalita sino alle sue origini a Montalto per poi discendere il versante opposto del massiccio seguendo il torrente Favazzina sino al mare. Per una settimana di cammino con zaino in spalla.

Un breve ricordo di Roberto Lombi, uno dei protagonisti, introduce alle immagini del luglio 1987 e all’articolo che uscì sulla rivista Calabria Sconosciuta

Alfonso mi ha chiesto di scrivere qualcosa su Jonti ‘87, quindi comincio con ringraziarlo, molte cose non sarebbero state possibili senza la sua testardaggine!
Di quell’avventura ho bellissimi ricordi personali, ma per quest’occasione, ho nuovamente letto l’articolo uscito all’epoca sulla rivista “Calabria Sconosciuta”; ricordo l’orgoglio con cui lo lessi la prima volta: quello che per me era un gioco, una sfida personale, era raccontato su una vera rivista. Fu in quel momento che ho capito: quel gioco era diventato qualcosa di importante, era l’inizio dell’escursionismo in Aspromonte.
Fare escursionismo in questa montagna, in quegli anni, non era una cosa scontata: erano gli anni dei sequestri, l’Aspromonte era noto per i summit di “ndrangheta”, non certo per le sue bellezze naturali. In quegli anni esisteva una barriera invisibile tra chi abitava e viveva l’Aspromonte e chi viveva in città da ‘borghese’ e quei due mondi si guardavano con diffidenza e paura.
Chi viveva in montagna dava per scontate le sue bellezze, talvolta le considerava anche un fastidio, ma certamente non le considerava una risorsa. Per contro, tutti gli altri immaginavano l’Aspromonte come un luogo impervio, inaccessibile e popolato da delinquenti.
Poi c’eravamo noi, un gruppo di studenti, che si lanciava all’esplorazione di questa montagna sconosciuta, forse ispirato dai film di Indiana Jones, usciti pochi anni prima, o dai documentari naturalistici che cominciavano ad apparire sui palinsesti televisivi.
Dall’articolo traspare soprattutto la meraviglia per le bellezze naturali (ri)scoperte, ma inconsapevolmente, era già iniziato ciò che ha reso questa ‘impresa’ più importante di una semplice escursione; avevamo iniziato a conoscere gli uomini e le donne che abitavano l’Aspromonte, avevamo aperto la prima breccia in quel muro invisibile.
Negli anni successivi l’associazione “Gente in Aspromonte” crebbe, portò centinaia di persone in Aspromonte e mi piace pensare che, con la Jonti ‘87, abbiamo contribuito a (ri)avvicinare la costa e l’entroterra, i ‘cittadini’ ai ‘montanari’, a costruire una cultura condivisa della montagna.

di Giuseppe Arcidiaco

L’artista e viaggiatore lettone Theodore Brenson nacque a Riga nel 1893. Dopo gli studi di architettura, si formò nelle accademie e nelle scuole d’arte di Riga e San Pietroburgo ed alle Università di Mosca e di Riga. Visse per qualche tempo spostandosi per l’Europa e nel 1941 si trasferì con la famiglia negli Stati Uniti dove allestì diverse mostre e insegnò arte nelle università americane.
Significativo ed arricchente fu, per lui, il viaggio attraverso l’Italia che intraprese negli anni 20 del ‘900, periodo in cui il suo estro artistico raggiunse l’apice. Le sue “visioni” sono caratterizzate da una sublime semplicità, a tratti onirica, evocativa di un passato persistente ed immortale.
L’Italia fu per Brenson, un luogo in cui si recò per “trovarvi una grande forma costruita armoniosa e spirituale ed ho trovato molto più. Avanti all’anima mia si è aperto un mondo nuovo, dove l’uomo non è più isolato sulla terra, ma dove terra e uomo formano un insieme così intimo, così unito nella luminosità dell’atmosfera che quasi non sembra reale”. Così, egli stesso si espresse in una lettera a Luigi Parpagliolo, saggista e studioso calabrese.
Artista errante e dall’insaziabile curiosità per i luoghi, le popolazioni, le culture, sempre alla ricerca di nuovi orizzonti, raggiunse la Calabria nell’estate del 1927, rimanendovi per circa tre mesi. Qui dipinse un centinaio di tele, alcune delle quali riprodotte nella raccolta “Visioni di Calabria – Cinquantadue disegni di Teodoro Brenson”, edita nel 1929 a Firenze da Vallecchi diretta dal   meridionalista Umberto Zanotti-Bianco e arricchita da un saggio di Luigi Parpagliolo.
Alla pubblicazione del 1929 ne seguirono altre di Raffaele Gaetano del 2010 per Gigliotti e del 2014 per Città del Sole.
Brenson subì l’incanto e l’infatuazione degli scenari calabresi e ne lasciò al mondo un’ingente traccia iconografica, composta da molteplici “visioni”: panorami, particolari di antichi borghi, scorci di paesaggi naturalistici, scene di vita quotidiana degli abitanti del luogo, istantanee di una terra periferica, sconosciuta ai più e, per certi versi, ancora incontaminata dal pensiero dominante dell’Europa di quegli anni. Il rifugio perfetto per un artista in cerca di ispirazione e di luoghi da contemplare.
Fu un ritrattista eclettico ed un raffinato disegnatore che sperimentò svariate tecniche espressive: disegno a matita, sanguigna, seppia e carboncino, lapis nero ma anche incisione, pittura a guazzo, acquerelli ed acqueforti. Nelle sue raffigurazioni, dominanti sono la prospettiva e la cura dei dettagli nella rappresentazione di edifici, castelli, chiese, rocche e singoli monumenti, i cui volumi emergono plastici e definiti, ma sempre percepiti come in armonia con il paesaggio circostante e modellati dalla luce e dalle ombre. Nei disegni brensoniani, la natura e gli elementi antropici sono equilibratamente presenti, ma filtrati, purificati e ridotti all’essenza dalla mente dell’illustratore che, pur conservandone realismo e fotografica oggettività, si discosta dai pittori vedutisti del ‘700, “visioni” appunto, non “vedute”.
Le opere calabresi di Brenson mostrano le località visitate durante le sue molte peregrinazioni, raggiunte talvolta con difficoltà. Tra le più emblematiche della provincia di Reggio Calabria ricordiamo la Costa Viola e poi l’entroterra con Pentidattilo, il bosco di ulivi di Sinopoli, i borghi di Bova e Gerace. Raggiunse e ritrasse anche la vetta del Montalto sormontata dalla statua del Redentore ed il santuario di Polsi immersi nella suggestiva e selvaggia natura dell’Aspromonte. In particolare, l’ascesa a Montalto dal paese di Santo Stefano avvenne sotto la guida dello stesso Zanotti-Bianco che fu tra i promotori del viaggio di Brenson in Calabria.
L’artista ci lascia un patrimonio di immagini che evocano e testimoniano una Calabria che in parte non esiste più, restituendole splendore e dignità.

L’Aspromonte è una montagna singolare. Una sua unicità era il lago Costantino, formatosi per una frana che ostruì la fiumara Bonamico. Particolare per la nascita lo fu anche per la scomparsa avvenuta per interramento. Potete leggere la sua storia in  https://www.laltroaspromonte.it/storie/il-lago-costantino/

Ulteriori notizie le abbiamo tratte dagli studi dei geologi Peter Ergenziger e Hillert Ibbeken dell’Università di Berlino che si occuparono per diverso tempo di studiare le caratteristiche dell’apporto solido che interessa i corsi d’acqua e le zone lacustri in particolare. Altri studi simili hanno posto l’accento sulla qualità del materiale trasportato ma non sulla quantità che risulta invece determinante per l’equilibrio complessivo dei bacini idrici.
La Calabria e l’Aspromonte in particolare offrirono allora condizioni uniche ai ricercatori tedeschi che vi dedicarono 20 anni dei loro studi.
Ma perché proprio la Calabria?
Molteplici i motivi:
– il territorio è interessato da movimenti tettonici risalenti al Pleistocene che ne hanno causato un innalzamento fino a 1000 metri con conseguenti fenomeni disgregativi che lo rendono particolarmente fragile;
– presenza di corsi d’acqua ad altissima energia (brevi e assai pendenti);
– presenza di formazioni rocciose degradate di natura granitica (ignee intrusive), metamorfica e sedimentaria;
– disponibilità di cartografia aggiornata in scala 1:100.00 e 1: 25.000 a carattere topografico e geologico (1: 25.000);
– distanza da Berlino di circa 2.300 chilometri, non brevissima ma che ha consentito di trasportare in auto una quantità notevole di materiali e strumentazione (impossibile in aereo o treno);
– massima disponibilità, accoglienza e collaborazione della popolazione (in particolare la famiglia Stranges di San Luca) e delle autorità locali che hanno messo gli studiosi in condizioni di operare con assoluta tranquillità.

Le immagini sono tratte dal volume “Sorce and Sedime di H. Ibbeken – R. Schleyer, 1991 Frei Universität di Berlino” e i testi tradotti e rielaborati dall’ing. Joseph Moricca.

Foto 01
La frana di Costantino immediatamente dopo la sua formazione il 4 gennaio 1973. Altezza massima della diga è di 80 metri. Attualmente il livello del lago sta ancora salendo. Notare che la frana si è accumulata sul pendio a destra nella foto e anche la cospicua fuoriuscita dell’acqua nella parte centrale della diga dove si è creata un’apertura. È questo il luogo dove un mese dopo l’evento franoso si è formato il nuovo assetto della valle. (Foto Mario Stranges)

Foto 02
Vista a monte e verso lo sbocco della valle del Bonamico appena formata. Questa valle si è formata lentamente e silenziosamente in periodo di circa dieci giorni e non bruscamente in un’unica catastrofica rottura della diga.
Per molti anni, la frana sarà la causa di un eccesso di deposito sedimentario sul letto della fiumara a monte dello sbarramento. A monte del lago, durante le inondazioni, la potenza dell’acqua è sufficiente a trasportare massi ancora più grandi, come si nota qui.

Foto 03
Gneiss* e pegmatiti** della zona del lago Costantino. Il forte grado di disgregazione rende queste rocce la principale fonte di approvvigionamento ghiaioso del bacino del Bonamico. Si nota una cascata che si getta nel lago.
*roccia stratificata di origine metamorfica
** rocce magmatiche di natura intrusiva

Foto 04
La frana Costantino. La foto è stata scattata nel marzo del 1973, due mesi dopo l’evento. Da notare che la frana, staccatasi dal costone a sinistra, per la velocità, si è accumulata in alto sul pendio a destra. La diga è ora tagliata dalla nuova valle, il lago retrostante viene riempito dalla fiumara.

Foto 05
Vista verso Nord del monte Scorda (1572 m), limite settentrionale del massiccio metamorfico dell’Aspromonte. Numerose frane alimentano il ripido canale del Vallone Aurea, al centro, principale affluente del Buonamico superiore. A destra, in fondo, la piana dello Zomaro. Singoli esemplari di pini larici.

Foto 06
Pendii scoscesi e frane del Potamia, breve ma possente affluente del Buonamico in primo piano. Sulla cresta, al centro e a destra, i ruderi del villaggio Potamia, abbandonato dopo il terremoto del 1783. È questo l’aspetto tipico dei pendii della fascia ad alta pendenza.

Foto 07
Campionamento in alveo dei sedimenti del fiume Buonamico. Vista a monte da sotto San Luca verso ovest, cioè verso la linea di massima pendenza dove il fiume si allarga. Sullo sfondo si nota la frana Costantino.

Foto 08
La frana di Fernìa dell’ottobre 1951, innescata da un temporale che durò 3 giorni con precipitazioni di quasi 1500 mm. Tuttavia, questa frana, intrappolata nella sua parte superiore a forma di X, contribuisce solo in minima parte al sistema fluviale attuale.

Foto 9 e 10
Il delta del lago Costantino nel settembre 1976. La maggior parte di questo corpo sedimentario è stato depositato subito dopo la formazione del lago.

Tra i greci di Calabria ho conosciuto diversi personaggi. Catuzza Nucera detta di Clistì era unica. La descrive mirabilmente Valentino Santagati nel suo libro (con Carlo Mangiola) Le vacche sono anime del Purgatorio, Iiriti 2001

Catuzza Nucera di Bova, la vedova del maresciallo Volontà, non parlò greco in gioventù.
Era nata nel 1912 in una famiglia contadina e i suoi genitori, convinti che il greco rivelasse alle orecchie del mondo l’uomo d’ammunti, zangrèo e paddecu, basarono l’educazione linguistica della prole sul calabrese boviciano.
Solo quando si bisticciavano scappavano dalle loro bocche male parole greche, e quando si cantavano travùdi d’amore non riuscivano a prescindere dalla lingua madre.
A dispetto di tutti gli accorgimenti, nel segno dei canti e delle piccole sciarre familiari, Catuzza diventò comunque grecofona. Io la ricordo nelle manifestazioni degli ellenofoni e negli incontri tra greci di Grecia e di Calabria: con le pupille ridenti dentro gli occhiali grandi si avventava sul microfono come su una preda fino a stringerlo con forza mentre se lo portava alla bocca.
A quel punto, sventolando la mano libera con un gesto frequente nelle contadine che cantano o si accalorano nel parlare, dava inizio all’esecuzione di una sfilza di canti greci.
Catuzza proseguiva ad oltranza, con un’allegria e un calore che conquistavano sempre l’uditorio, fino a quando qualche imbarazzato organizzatore, ringraziandola e proponendo un applauso per lei, non le strappava il microfono di mano per evitare di accumulare ritardi sullo svolgimento del programma.
Una sera di dicembre del 1990, mentre parlavamo nella casetta di Bova ove viveva col figlio schettu (celibe n.d.r.), feci osservare a Catuzza che forse i suoi mari (defunti n.d.r.) genitori sarebbero stati contenti di una figlia come lei, che vendicava dopo tanti anni le loro umiliazioni impegnandosi nel revival del canto greco.
“Ma cu lu sapi — dubitò Catuzza — iddi camparu quandu lu greco era mundizza. Nui avivamu lu granu seminatu e facivamu lu bacu di la seta, ma me patri era capu mulatteri chi purtau lu sali di Melitu a Bova pi sessant’anni. Aviva nu frati a lu seminariu puru. Accamora di mia pensavanu ca pacciai, ca li sensi mi bbandunaru”.
(Ma chi lo sa – dubitò Catuzza – loro sono vissuti quando il greco era spazzatura. Noi avevamo il grano seminato e allevavamo il baco da seta, ma mio padre era capo mulattiere che portò il sale da Melito a Bova per sessant’anni. Aveva pure un fratello in seminario. Ora di me penseranno che sia impazzita, perché i sensi mi hanno abbandonato n.d.r.).
Nucera Caterina nata a Bova il 09-09-1912, deceduta a Melito di Porto Salvo il 21-05-1997

Un tragico incidente avvenuto oltre un secolo fa in Aspromonte, narrato vividamente dallo scrittore sanluchese Fortunato Nocera in Colloquio col padre, Città del Sole 2011

Mia nonna perse il padre da bambina a causa di una disgrazia che ha dell’incredibile. Era la fine del 1800 e Francesco tornava dalla montagna dove lavorava come garzone in una delle mandrie di don Vittorio, portava la bisaccia carica di formaggi da consegnare al padrone. Era il mese di settembre, la calura era ancora grande. Francesco sentì il bisogno di rinfrescarsi ad una sorgente che scaturiva in una valletta vicina. Per abbreviare il cammino lasciò il sentiero che portava al paese e prese per un campo di mais. La raccolta delle pannocchie era avvenuta da poco; gli steli erano stati tagliati a circa venti-trenta centimetri dal suolo. Per la stanchezza, per la sete e per la grande calura, Francesco inciampò con una delle stringhe delle sue calandrelle e cadde in avanti, sospinto anche dal peso della bisaccia.  Uno degli steli tagliati a forma di cuneo andò a conficcarsi nel petto recidendo di netto l’aorta. Morì dissanguato in meno di mezz’ora. Fu trovato la sera dello stesso giorno. Avrebbe compiuto trent’anni la settimana successiva. Aveva attraversato valli e valloni, era passato su strettissimi viottoli a strapiombo su profondi burroni, aveva guadato torrenti turbinosi, saltando sulle pietre che affioravano dall’acqua, aveva camminato ininterrottamente per quattro ore e mezzo ed era venuto a morire in pianura, a meno di un chilometro da casa.