Antonio Vottari detto Scarpina era un pastore che aveva l’ovile lungo il tragitto che portava al lago Costantino e quindi da me spesso frequentato a cominciare dagli anni ‘80. Scarpina è scomparso nel 2002, il lago qualche anno dopo e l’area è caduta nell’oblio. Mesi fa però, da Serro d’Acro, sotto Pietra Castello, ho rivisto la contrada Pezzi, ove era sito l’ovile. Ho avuto nostalgia di tornarvi e Santo, il figlio di Antonio Vottari, mi ha gentilmente accompagnato. La fiumara Bonamico, in quel mese di giugno, è ancora gonfia d’acqua pertanto con un fuoristrada la guadiamo e saliamo sino a Pìrria, sul versante destro del torrente. Da lì un percorso per me inedito, seguendo tracce ormai labili che solo Santo sa vedere. Incontrando ovili abbandonati, armacere e terrate dirute. Dentro una fitta e ombrosa lecceta ma che ogni tanto apre affacci sulla fiumara e sulle vertiginose pareti di Pietra Castello. Ai toponimi citati nella cartografia dell’I.G.M.I.  e della C.T.R. si aggiungono quelli conosciuti da Santo. Un rosario di nomi che bisbigliano leggende come Bottiglerìo, il vallone nel quale furono gettati dal castello, in una botte,  il conte cattivo e il paggio traditore. O mestieri come Fassari, dall’arabo fabbricante di stuoie; piante come Cessarè dal greco cisto, Napordà = cardi; uccelli come Pìrria dal greco pettirosso; nomi come Agàsi = Agata; indicativi dell’orografia come Anzari dall’arabo terrazza, cioè luogo pianeggiante presso un dirupo; memoria di luoghi sacri come Costantino dove esisteva un monastero. Mi sembra di essere in Australia lungo le vie dei canti narrate da Bruce Chatwin.
Entrando e uscendo da valloni scendiamo infine alla fiumara Bonamico, poco a valle della frana di Costantino, quella che ostruì il corso d’acqua creando il lago omonimo.  Imponente, tormentata, disseminata di massi enormi ma ci spostiamo al pianeggiante terrazzo alluvionale ai piedi dell’ovile e già alcuni muretti sono i segni dell’attività di dissodamento di Scarpina che qui, nella bella stagione, coltivava l’orto. Poco distante, la sorgente di Pezzi. E proprio questo toponimo mi fa pensare che potrebbe assimilarsi a Punta Pezzo, presso Cannitello, luogo più stretto tra Calabria e Sicilia. Infatti Pezzi si trova proprio nel punto in cui la fiumara Bonamico si restringe. Era lì che i Vottari avevano realizzato un’ardita passerella con cavi d’acciaio ancorati a uno scoglio roccioso in mezzo alla fiumara.
Saliamo alla baracca e a quello che rimane del giardino che aveva alberi da frutto di ogni tipo. Convogliando l’acqua di una sorgente, Scarpina aveva creato una vera oasi nel deserto dove spesso noi escursionisti, arrostiti dall’infuocata pietraia della fiumara, ci rifugiavamo. Ma l’offerta dell’irrinunciabile bicchiere di vino ci stordiva del tutto.
Ora Santo deve combattere contro la vegetazione che sta ingoiando l’ovile, contro i cinghiali e le vacche che assediano il frutteto scalzando ogni recinzione. Un impegno gravoso, considerando anche le ore di cammino necessarie per giungere sul posto. Un onere che si è dato solo per motivi affettivi ma che non sa sino a quando potrà assolvere.

Ringrazio per la premurosa collaborazione i parenti di Scarpina e per l’assistenza audio-video Giuseppe Intravaia.

Approfondimenti

Scarpina
Lago Costantino
Sorgente Pezzi mappa
Passerella fiumara

Frequento l’Aspromonte da diverso tempo e questo, unitamente alle immagini che ho scattato, mi consente di osservare come sono mutate alcune aree.
Nel caso che espongo sono stati gli alberi, piantati dall’uomo, a cancellare un ambiente.
Si tratta di quella che, sino agli anni ’80, era la radura di Cannavi, alle pendici sud del monte omonimo, tra i comuni di Delianuova e San Luca. Attraversata da una stradina asfaltata, ai tempi una pista sterrata, che da Montalto segue il versante sinistro della vallata del Bonamico.
L’improvvida decisione delle autorità forestali dell’epoca fu di piantare alberi. In una radura in leggero declivio, senza nessun problema di dissesto o di erosione. Probabilmente la facile accessibilità, la necessità di occupare la manodopera e di utilizzare il materiale vivaistico disponibile furono motivi sufficienti.
È stato così cancellato un importante elemento naturale del mosaico di ambienti che compone il paesaggio montano. Un paesaggio che è tanto più pregevole tanto più presenta ambienti diversi, con alternanza di boschi e radure, di pieni e di vuoti.
La radura inoltre, rispetto al sottobosco, forma un ecosistema profondamente diverso, risultando fondamentale per gli animali erbivori che lo usano abitualmente come superficie da pascolo (per esempio i tassi, le lepri, i caprioli). O per le farfalle dato che nelle radure si sviluppano un gran numero di piante erbacee delle quali si nutrono questi insetti. Insomma la varietà di ambienti contribuisce ad avere un elevato livello di biodiversità.
Radure, conche che un nostro autorevole geografo come Luigi Lacquaniti interpretò come tracce glaciali quaternarie, “circhi glaciali dalla forma classica a scodella aperta, limitata a monte, da pareti abrupte, con fianchi che, lateralmente, si raddolciscono, raccordandosi in curva sul fondo. In basso le cavità sono accompagnate da una barra rocciosa, ricoperta parzialmente da cordoni morenici. Il fondo che è ricoperto, maggiormente verso la barra, da uno strato di terra vegetale mescolato a frammenti rocciosi a spigoli netti, si presenta appena inciso da un solco di raccolta delle acque di pioggia o di fondita delle nevi, senza che ne sia modificato il caratteristico profilo glaciale.” (1)
Nei pressi la località denominata col termine dialettale “La squella” (o squeda) indica la scodella e in particolare una vasca circolare e incavata usata nel frantoio.
Tutto ciò è stato cancellato, con l’aggravio che non abbiamo nemmeno un bosco.
Nel tempo quell’impianto artificiale (tale perché realizzato dall’uomo) non è stato poi curato, non sono stati effettuati i necessari diradamenti e sfoltimenti. Ora è una sequela fitta di alberi filati, mal cresciuti, facili a essere schiantati da neve e vento, attraverso i quali non penetra la luce e quindi senza alcun sottobosco, facile preda del fuoco per la vicinanza delle piante.
Né mai il Parco Nazionale dell’Aspromonte si è preso la briga di effettuare degli interventi di restauro ambientale, in questa come in altre aree analoghe. Nonostante nel Piano del Parco, redatto per gli aspetti forestali da eccellenti professionisti e accademici della materia, tali problematiche e le possibili soluzioni siano state indicate.
In conclusione: non sempre piantare alberi è utile.

Le immagini mostrano una sequenza cronologica di Cannavi dal 1988 ad oggi con alcune attuali della vicina radura di Tabaccari, risparmiata dalla frenesia da rimboschimento.

(1) Luigi Lacquaniti, Le tracce glaciali quanternaria e l’antico limite altimetrico delle nevi nell’Aspromonte, Atti della XLII Riunione della Società per il progresso delle scienze, Roma 1951

 

Fino a qualche decennio fa, ai piedi di Pietra Cappa, era probabile l’incontro con Bastiano Codespoti di Natile, pastore il cui ovile era sotto le rocce di San Pietro. Suonatore di zampogna e di doppio flauto di canna che costruiva da sé, strumento discendente da quelli raffigurati sugli antichi vasi greci e chiamato sulavri. Abile nell’intaglio del legno, costruiva e spesso regalava cucchiai e forchette.
Un personaggio ieratico del quale parlammo, io e Francesco Bevilacqua, nella nostra guida dell’Aspromonte del 1999 GUIDA ASPROMONTE
Mite, affabile ci raccontava di re e di regine, di fate e di cavalieri, nascosti nelle torri di roccia che sbucavano nella fitta lecceta tra San Luca e Careri, quella che poi battezzammo la vallata delle Grandi Pietre.
È rimasta proverbiale l’abilità di Bastiano nello scalare Pietra Cappa suonando la zampogna e portandosi appresso perfino il gregge.
Diventammo amici tanto che un giorno lo incontrai, al casello di San Giorgio di Pietra Cappa, e mi disse che a breve avrebbe sposato la figlia. Io lo ascoltai e quando si congedò, con la stretta di mano, pronunciò la parola “ ’mbitatu ”.  Non capii ma gli operai forestali che erano al casello mi spiegarono  che ero stato invitato al matrimonio!
Simpatico anche per l’ospitalità “organizzata”: incontrandolo in montagna al seguito del gregge, con l’immancabile giacca poggiata sulle spalle, mi offriva una birra (d’estate) o un caffè corretto con anice (d’inverno) tirati fuori dalle maniche della giacca annodate in fondo e trasformata in dispensa, in bar ambulante.
Di questa consuetudine tra i pastori scrive Corrado Alvaro in “L’età breve”. “Una volta mio padre mi mandò uno dei nostri contadini a portarmi certa roba. Il contadino aveva una sua bisaccia; no, che dico? Aveva le provviste di viaggio messe nella manica della giacca, la giacca la portava sulla spalla, la manica era legata in fondo, faceva come un sacco. Io ero stanco di quelle pappe che ci davano, e ficcai la mano in quella riserva, e trovai un pezzo di salsiccia, un bel pezzo di pane di grano, formaggio, frutta, e mi misi a mangiare avidamente.”
Camminate, gente, camminate! Anche se non si incontra più Bastiano Codespoti, il suo spirito aleggia nella vallata delle Grandi Pietre accompagnandosi a re, regine, fate e cavalieri.

APPROFONDIMENTI
Sebastiano Codespoti nasce a Natile di Careri il 13/12/1933 e muore il 25/03/2014, ne ha scritto Francesco Bevilacqua in “Le fantasticherie del camminatore errante” e un mio articolo è apparso sulla RIVISTA DEL TREKKING
Il Parco ha ricostruito l’antico ovile, inclusa la cosiddetta “casetta” ma senza alcuna attinenza con I canoni tradizionali. Così come irrispettoso del luogo è il TOTEM realizzato dal Parco di fronte all’asceterio di S Pietro.

Febbraio del 1995, escursione sul versante sinistro della fiumara Amendolea, località Mesari (Bova). Fotografo degli uomini in fila che zappano una vigna in un terreno mirabilmente terrazzato. Chiedo cosa fanno e mi dicono “apostrofì”. Conosco così un termine greco composto dal prefisso “apo” che indica contro e “strofè” derivato dal verbo “strefo”, che significa girare, tornare. Analogamente il segno ortografico dell’apostrofo ha la forma di uno spirito aspro dei Greci rovesciato, al contrario.
Apostrofì, detto anche stremma,  nel mondo contadino acquista il significato di “restituzione”: in certi periodi dell’anno, del raccolto, per esempio, o del dissodare i campi, particolarmente gravosi e da svolgere in tempi rapidi, o dove è indispensabile il lavoro manuale per l’impossibilità di usare mezzi meccanici si sviluppa una forma di collaborazione che prevede la restituzione della prestazione: essendo il problema comune, chi per primo presta il suo aiuto sa che a breve si vedrà ricambiato il favore. Per questo si chiama apostrofí, restituzione. A carico del padrone del terreno è il pranzo per i lavoratori.
Negli anni ho continuato a fotografare il podere di Antonino Trapani detto Schiriddi che già nel 1995 avevo diviso il vigneto ai tre figli. La sequenza temporale delle immagini racconta purtroppo il suo abbandono. L’apostrofì non è bastato.

Postilla storica.
Anzitutto l’etimologia di Mesari che potrebbe derivare dal greco mèsa = in mezzo, divisione. Infatti, questa località, essendo terra di confine tra Bova e Amendolea, è stata sempre contesa tra feudatari sin dal 1084. All’inizio del XVIII secolo riappare in una causa giudiziaria tra il conte di Bova e il barone di Amendolea e nella descrizione dei confini viene menzionata la “Portella di Mesari”. Il fondo apparteneva alla nobile famiglia Amodei, poi nel 1954 passò alla famiglia Romeo che lo rivendette ai due fratelli Domenico e Antonino Trapani (Miki Lu bruttu e Ninu schiriddi), attuali proprietari.
Ancora oggi possiamo dire che è diviso in una parte alta chiamata l’orto e in una parte bassa chiamata la podagna. Sia nell’una che nell’altra è presente una sorgente, con relativa vasca per irrigazione. La coltura principale era il granturco, seguito da fagioli e ortaggi vari. Essendo in montagna tutti i prodotti erano posterini (tardivi) pertanto la maturazione iniziava a fine estate-inizio autunno quando ormai nelle marine la produzione era terminata. Il granturco forniva farina per la polenta, mangime per gli animali e “scarfoghj”, le foglie della pannocchia per imbottitura dei materassi.

Ringrazio per le informazioni Mimmo Cuppari, Salvino Nucera e Vincenzo Mastrovalerio. Alcune notizie sono tratte da “Le origini di Bova e del suo nome” di A. Catanea–Alati 1969

Per approfondimenti sui toponimi dell’area consultate la mappa
https://www.laltroaspromonte.it/cartografia/mappe/#toponimi-dellarea-grecanica

 

Sono Massimiliano Pedi, un appassionato fotografo nato nel 1990 a Reggio Calabria, città in cui attualmente risiedo e svolgo la mia professione. Nel vasto panorama della fotografia calabrese, mi distinguo per la mia fervente passione verso la fotografia paesaggistica, con una particolare predilezione per la tecnica della lunga esposizione. Il mio obiettivo è catturare la bellezza intrinseca dei luoghi che mi circondano, con un focus speciale sulle notturne.
Le mie opere hanno ottenuto il riconoscimento attraverso prestigiose pubblicazioni su riviste di fama internazionale come National Geographic Italia. Inoltre, ho avuto l’onore di esporre le mie fotografie in mostre a livello nazionale, condividendo la mia visione artistica con un vasto pubblico.
La mia passione per la fotografia paesaggistica notturna ha guidato il mio percorso fin dal marzo 2017, quando ho lanciato il mio progetto intitolato “CIELI DEL SUD”. Questa iniziativa mi ha spinto ad esplorare gli angoli più affascinanti della Calabria, in particolare l’Aspromonte e la zona meridionale della provincia di Reggio Calabria, comunemente nota come Calabria Greca. In questi luoghi, lontani dall’inquinamento luminoso delle città, ho avuto il privilegio di ammirare e immortalare un cielo stellato attraversato dalla maestosa Via Lattea, la nostra galassia.
Sono anche autore dell’ebook intitolato “Fotografare le Stelle e la Via Lattea,” tradotto in inglese con il titolo “How to Photograph The Stars and the Milky Way”. Questo libro ha ricevuto apprezzamenti da migliaia di appassionati di fotografia in tutto il mondo ed è una raccolta completa delle mie tecniche riguardanti la fotografia paesaggistica notturna, partendo dalle basi, passando per la configurazione dell’attrezzatura fino alla post-produzione.

Un’escursione di qualche ora, lungo il sentiero che collega Bova a Roghudi, ci rivela una montagna generosa.
Una sequenza di toponimi che è già musica: Mandudduru, Lestizi, Spartusa, Chieromandri, Tribona, Mensa, Buscopianò, Paracalami. Una collana di coltivi ormai abbandonati lungo quella che era, sino alla metà del secolo scorso, la via principale tra Bova e Roghudi. Sino a pochi anni fa ancora percorsa da Antonino Trapani detto lu Stiratu, col suo asino. Le importanti opere di sostegno, i gradini, i posaturi ne sono conferma per cui meriterebbe ben più attenzione da parte del Parco. Un cancello sembra un’opera di arte moderna. Abbiamo mangiato a sazietà cachi di una varietà piccola ma dolcissima, raccolto castagne, mele, pere e alla fine uva da una vite che si era arrampicata su di un albero tanto da piegarne i rami. Una natura curata amorevolmente che restituiva con generosità, dando da vivere a diverse generazioni di bovisciani e rigudisi. Una tagliola per lupi ci ricorda però che spesso era una lotta cruenta.
In un tratto di fitta e ombrosa lecceta, tra pioppi monumentali, una sorgente in abbandono. Il nome non è riportato nelle carte ma i Trapani che ancora abitano a Mandudduru mi dicono si chiama “sterusa”. In greco calabro vuol dire “luogo di felci”, ed è proprio così.
La commozione nell’incontro col pastore Salvatore Trapani detto Cignaluci, dai cui lineamenti riconosco la parentela con maru Leo Pangallo Palittuci, ultimo abitante di Roghudi scomparso in un incidente nel 2013, suggella una intensa giornata.

Per approfondimenti sui toponimi consultate la mappa
https://www.laltroaspromonte.it/cartografia/mappe/#toponimi-dellarea-grecanica
Su Roghudi https://www.laltroaspromonte.it/storie/ultimi-bagliori/
https://www.laltroaspromonte.it/3d-flip-book/le-fiumare-dellaspromonte/
e il video 1992 Aspromonte Trekking Fiumare CAI Pinerolo in https://www.laltroaspromonte.it/video/
Sui lupi in Aspromonte https://www.laltroaspromonte.it/storie/la-pecora-e-il-lupo/

Mi chiamo Girolamo solo sui documenti, per tutti gli altri sono Gino. La mia passione per la fotografia è nata da ragazzino quando ho capito quanto fosse importante immortalare un istante, un evento, una ricorrenza o semplicemente un tramonto su una diapositiva per renderlo eterno.
Lo scautismo poi ha sviluppato in me l’amore per la natura e quindi per la montagna. L’ Aspromonte ha fatto il resto. Un luogo magico ed ancestrale che mi ha fin da subito acceso un desiderio di conoscerlo in ogni suo aspetto. Ed è per questo che ho iniziato a percorrerlo a piedi e a prendere consapevolezza di quanto fosse importante condividere questa bellezza con gli altri attraverso la fotografia di paesaggio.
Ho conseguito l’attestato di Guida naturalistica ambientale nel lontano 1997, grazie a un corso organizzato dalla Regione Calabria. E anche se mi sono fatto promotore di tantissime escursioni con molti miei amici, non ho mai pensato di farne una professione, ma come si dice …  mai dire mai.
Con l’iscrizione al CAI (Club Alpino Italiano) sezione Aspromonte di Reggio Calabria i miei orizzonti si sono ulteriormente ampliati. Ho avuto la fortuna di conoscere grandi camminatori, guide storiche del nostro Aspromonte e di approfondire la mia conoscenza su tutto il nostro territorio.
Ultimamente, oltre alla fotografia, mi dedico anche alla realizzazione di piccoli montaggi video effettuati durante le mie escursioni che poi inserisco sul mio canale YouTube (AsproFonte), perché ritengo che la bellezza della nostra terra vada assolutamente condivisa.

“Come a contatto dell’aria le antiche mummie si polverizzano, si polverizzò così questa vita. È una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie». La frase di Corrado Alvaro descrive bene gli ultimi abitanti di Roghudi.
All’inizio degli anni ’90 cominciai a guidare gruppi di escursionisti in Aspromonte e Roghudi era una delle nostre tappe. Il paesino, in bilico sulla fiumara Amendolea, era stato dichiarato inagibile dal 1972 e quindi senza luce, acqua, ecc. Don Rafele (Raffaele Favasuli) era uno dei tre abitanti che non era voluto andare via.
Giungevamo supportati da un paio di furgoni carichi di viveri e attrezzatura da campeggio per 40 persone ma, nonostante questo dispiego di mezzi e la nostra preponderanza numerica, era lui il re di Roghudi. Dormivamo nella chiesa ormai sconsacrata che, anche se cadente, era l’unico edificio in grado di offrire un tetto a tante persone. Era lui, don Rafele detto Ciciuni, che mi consegnava le chiavi, dopo numerose raccomandazioni sul comportamento da tenere nell’edificio, per lui ancora sacro, ed in particolare per l’abbigliamento delle donne. Cercavamo di ricambiare la cortesia offrendo dolci e altro ma lui ci sopravanzava sempre. Entrava in una casa abbandonata e ne usciva fuori con un paniere colmo di ciliegie, da un’altra portava una cassa di birre fresche, da un balcone un cesto di fichi. Per non parlare delle cene consumate nell’unica minuscola piazza del paese (in 40 ci stavamo stretti) dove, appena la pasta era servita a tavola, passava con la ricotta salata grattugiandola così fitta e in una striscia ininterrotta sui piatti, sulle mani, sulla tavola che sembrava nevicasse. E a conclusione l’immancabile tarantella gestita da Nino Pangallo detto Palitta che nonostante gli anni teneva testa a tutti nel ballo.
Era una gioia per loro vedere rivivere il paese, anche se solo per una notte. Ma la gioia più grande è stata la mia che ho potuto intravedere gli ultimi bagliori di una civiltà che stava scomparendo.

Alcune foto d’epoca sono di Enzo Acri del CAI Edelweiss di Milano, tra i primi a portare gruppi di escursionisti in Aspromonte ed ancora oggi sulla breccia.
Approfondimenti in https://www.laltroaspromonte.it/3d-flip-book/guida-naturalistica-della-calabria-greca
https://www.laltroaspromonte.it/3d-flip-book/nei-paesi-delle-minoranze-linguistiche
e in altri volumi e articoli disponibili sul sito.

Nel 2012 ho cercato di organizzare, per i soci del CAI, la partecipazione alla transumanza estiva di bovini dalle coste del mar Jonio alla Sila. Con tutte le difficoltà derivanti dal gestire e far coincidere le esigenze della mandria di un centinaio di bovini con quelle della mandria di una ventina di umani al seguito.
In tale contesto è incredibile la capacità di pochi mandriani nel condurre centinaia di vacche. Nella ricerca di pascoli vi è però anche la metafora del cammino dell’uomo e del bovino, iniziato diecimila anni fa con la domesticazione. Sapienze e richiami ancestrali. Nonostante gli imprevisti e le complessità è stata un’esperienza totalizzante, coinvolgente.
È durata 3 giorni, dal 6 all’8 luglio. Da Umbriatico, paesino del crotonese a una trentina di chilometri dalla costa ionica, sino ai pascoli della Sila, al lago di Ariamacina, per un totale di circa 60 km di percorso.
Tutto nacque da una delle mie solite strane idee e da un giovane del luogo che era in contatto con gli allevatori che facevano la transumanza e si dichiarava in grado di organizzare la logistica di un gruppo di escursionisti che voleva seguire la mandria.
Insieme a Saverio Settimio strutturai una proposta alla quale aderirono una ventina di soci. Io partecipai con tutta la mia famiglia, mia moglie Laura e i miei due figli, all’epoca di 15 e 11 anni.
Noleggiamo un pullman che ci condusse al punto di partenza della transumanza e alla fine ci avrebbe riportati a Reggio Calabria e soprattutto trasportava bagagli e tende per l’allestimento dei due campi. Tuttavia, le perplessità nate nelle lunghe telefonate preparatorie con l’organizzatore locale aumentarono appena giunti sul posto. Elemento cardine su cui tutto ruotava era la mandria che, gli allevatori ce lo spiegarono subito, non aveva una velocità di cammino costante e prevedibile. Era pertanto difficile stabilire i luoghi dove si sarebbe fermata per la notte e quindi per noi dare appuntamento al bus (spesso non c’era linea per comunicare) che ci doveva consegnare il necessario per apprestare i campi. Né potevamo portarci addosso tende, cibo, ecc. perché non saremmo riusciti a tenere il passo delle vacche. Anche gli orari di partenza e di termine del cammino durante il giorno non si potevano stabilire.
Insomma, tutto legato al caso, o meglio, all’istinto, alla volubilità delle vacche!
Nonostante tali premesse partimmo, con un caldo terribile, in una nuvola di polvere e, stando dietro alla mandria, pestando innumerevoli cacche.
Non vi sto quindi a descrivere tutte le partenze impreviste; le soste (per noi) inspiegabili; la durezza del cammino anche per alcuni tratti asfaltati; l’incontro/scontro con un toro solitario che voleva insidiare le vacche al toro dominante della mandria; il dividersi imprevisto della mandria in due gruppi con separazione di vitelli e madri e, a sera, l’emozionante ricongiungimento.
In questo contesto la documentazione fotografica è stata limitata e raccolta in un album dal quale ho tratto le pagine che la descrivono: buona visione.

Per chi volesse approfondire il tema ho raccolto documentazione e testimonianze in Aspromonte. Ecco il link https://www.laltroaspromonte.it/storie/transumanza-in-aspromonte

Una storia che vi racconterò a ritroso. Inizia, o forse termina, nel 2021 quando scrissi, con l’amico Nuccio Venoso, il libro “Passi”. Un capitolo è dedicato alla chiesa di San Nicola di Cirella di Platì. È questo uno dei tanti minuscoli ma suggestivi edifici religiosi studiati amorevolmente in oltre un lustro di ricerche pedestri dal prof. Domenico Minuto. Avevo scelto questo luogo, insieme ad altri 20, per comporre un libro che mettesse insieme natura e storia.

San Nicola è alle pendici della bastionata rocciosa che, improvvisa, si innalza dai pianori ondulati ove sono adagiati i paesi di Platì, Cirella e Ciminà. Alcuni nomi: Aria del Vento, Rocce dell’Agonia, Rocche degli Smaleditti, Malacaccia già incutono timore. Così li descrive il Minuto: “Il groppone che alle sue radici piglia il nome dell’Agonia è insieme frastagliato e compatto. La sua superficie, coperta di macchia mediterranea, è tutta bitorzoluta per una gran quantità di sporgenze e rigonfiature della roccia, emergenti brillanti e nerastre dal fogliame, come il corpo di un rinoceronte. Più scattanti e frastagliate, sono, invece, le rocce del ciglio superiore della costa, man mano che ci si avanza verso gli Smaleditti; vicino al Passo di S. Nicola, sollevandosi fra brevi pianori e conche erbose, sembrano imitare, senza riuscirci, l’eleganza di Pietra Cappa, intensificandone, invece, quasi con angoscia, la forza pittoresca. Tali sono anche le Rocche degli Smalleditti, al di là della stretta valle, ma più grosse e più alte, con maggiore e cupa imponenza.”

C’ero stato nel 2016 con Minuto e Venoso, guidati da Mimmo Catanzariti, Arturo Rocca e Giuseppe Romeo. Salimmo a San Nicola dove ci aspettava Ciccio Romeo da Pagliarejia, il pastore-contadino custode dei luoghi. Incontrandolo ebbi il primo salto indietro nel tempo. Mi ricordai di averlo fotografato, col padre e il figlio, nel 1989. Quando sorvegliavano il gregge e il figlio andò a raccogliere un capretto appena nato.

Tornato a casa guardai le diapositive di quel rullino e ve ne erano alcune che ritraevano una croce, con incisa la data “1899”, scattate a San Nicola.

Volli saperne di più e chiesi al prof. Minuto che mi rimandò a un suo articolo apparso su “Calabria Sconosciuta”. Racconta di una sua escursione in quell’area il 9 dicembre del 1979 con Paolo Chirico e Mimmolino l’Artista. Resoconto vivido che narra come erano condotte le esplorazioni di quei pionieri.

Riporto i brani relativi alla croce: “Alle Rocce dell’Agonia il signor ‘Ntoni l’usciere si fermò e ci raccontò una storia. Al centro delle Rocce c’era una casa; vi abitava il secolo scorso il signor Pacifico. Egli coltivava tutta la zona attorno alla casa. Una volta, mentre si trovava a lavorare con i buoi nelle alture, al Passo di San Nicola, le bestie stramazzarono in ginocchio. Si mise a bestemmiare e corse davanti ai buoi per obbligarli a rialzarsi: ma stramazzò anche lui per terra, ad adorare un Crocifisso che affiorava dal suolo.  Del Crocifisso, il sig. ‘Ntoni disse di non sapere più niente e terminato il racconto prese commiato da noi. Proseguimmo verso la cima del colle e giungemmo alla casa del sig. Peppe Romeo che ci venne incontro. Era costruita con ciottoli e conci a secco, e ne uscirono anche alcune donne. Dopo le presentazioni, porgemmo il saluto del sig. ‘Ntoni e il discorso cadde sulla storia del sig. Pacifico. “Lì comparve il Crocifisso” dissero insieme le donne, indicando uno spazio tra un ulivo e un fico, dove avevano posto delle lastre, perché nessuno vi mettesse il piede di sopra.

… Intanto le donne avevano preso il Crocifisso: era di bronzo, circa 15 cm per 7, con il cartiglio INRI, sembrava non più vecchio di mezzo millennio, da quanto si poteva vedere sotto la piccola lastra di vetro della stauroteca in legno di gelso, opera artigianale della fine del secolo scorso, come attestava una data incisa. … Finalmente vedemmo: prothesis, diaconicòn, abside orientata al sorgere del sole di quei giorni, una chiesa bizantina, del tipo consueto nella nostra terra. Ci abbracciamo tutti e tre. Ponemmo il Crocifisso presso l’altare e adorammo anche noi, pregando per questa nostra terra, per la sua storia ormai disperata, per tutti gli abitanti, lavoratori, viandanti, forestieri immigrati o costretti.”

ADDENDA
Il Peppe Romeo (da Pagliarejia) che mostrò nel 1979 la chiesa di San Nicola al prof. Minuto è l’anziano da me fotografato nel 1989 insieme al figlio Ciccio. Quest’ultimo ci guidò nel 2016

Link
Libro Passi, pagg. 159-168 https://www.laltroaspromonte.it/portfolio-articoli/passi
Articolo Minuto 1980 Calabria Sconosciuta
https://drive.google.com/file/d/1gjHUuq9eRbClJuWED2_UDQgwHRUWpJZN/view?usp=sharing