Sauccio è una frazione del comune di Bagaladi ma fondata da abitanti di Cardeto.
C’ero stato la prima volta negli anni ’90 in preparazione della guida del Parco d’Aspromonte e poi, studiandolo meglio, nel 2004. Ci sono tornato questo mese e ora ve ne racconto la storia singolare.§È posizionato a metà costa del versante in destra idrografica del torrente Tuccio, in posizione soleggiata, in un piccolo pianoro che costituisce la zona coltivata del territorio. Circondato da boschi di castagno e di leccio purtroppo negli ultimi decenni devastati da incendi.
La fiumara sottostante, il cui letto è molto stretto quindi con cascate e diversi salti, è ricchissima d’acqua. Molte sono le sorgenti d’acqua all’interno dell’abitato e lungo la strada che porta al torrente.
La storia di Sauccio è relativamente recente, infatti, fino alla fine dell’Ottocento non vi erano abitanti nella frazione e i terreni, di proprietà di famiglie residenti a Cardeto, venivano coltivati dagli stessi che facevano la spola tra Cardeto e Sauccio. Le uniche costruzioni erano dei pagliai che servivano da riparo temporaneo.
Agli inizi del Novecento, i figli dei vecchi proprietari iniziano a sposarsi e a stabilirsi definitivamente a Sauccio creando il primo nucleo della comunità saucciota. I primi fanno parte della famiglia Megale, che oltre a essere agricoltori, fondano una delle prime attività manifatturiere nella zona. Infatti, nella località ora detta Mulino, impiantano l’attività del battinderi (in italiano gualchiera o follone), antico sistema per l’infeltrimento dei tessuti di lana, e iniziano a sfruttare l’energia idraulica prodotta con le acque del vicino torrente.
Con tale attività si produceva l’orbace, particolare tessuto di lana infeltrita, con cui si confezionavano i mantelli e i calzoni dei pastori.
Il funzionamento ininterrotto del battinderi necessitava di molto combustibile per alimentare l’enorme caldaia e questo ha prodotto il veloce disboscamento dei due versanti del torrente.
Intanto, altre famiglie si erano stanziate sul territorio, che costruendo altre case crearono quello che oggi è il centro abitato.
Aumentano i terreni coltivati, l’attività di terrazzamento dei versanti e il convogliamento delle acque sorgive per l’irrigazione. Ha inizio così lo sviluppo della comunità.
Con l’inizio della guerra e l’imposizione della tassa sul macinato, l’antico battinderi viene convertito in mulino e inizia la macinatura dei cereali. Installano una teleferica e si sviluppano attività artigianali collaterali. La più importante è la costruzione delle ciaramelle che ha raggiunto il massimo sviluppo con Antonino Megale. La comunità saucciota si afferma sempre più sul territorio. Sono proprietari dei terreni che coltivavano e questo li pone in un gradino superiore rispetto agli abitanti del territorio circostante, per lo più coloni di grandi proprietari terrieri. Quindi la comunità, non solo si è sviluppata in maniera veloce, ma ha anche scelto le linee di sviluppo, senza imposizioni o costrizioni esterne.
Non senza eventi tragici come la morte nel 1951 all’età di vent’anni di Antonia Battaglia, colpita da un fulmine. La ricorda una targa posta lungo la strada.
Questo tipo di economia, basato sull’autosufficienza, ha retto fin tanto che il sistema del baratto non è stato definitivamente sostituito dagli scambi monetari.
Il bisogno di denaro ha provocato le prime migrazioni intorno agli anni ’60, che da allora non si sono mai arrestate. Gli ultimi nuclei famigliari, per lo più costituiti da persone anziane si sono trasferiti nei centri vicini, Bagaladi, Melito e Gallina, fino a provocare il totale spopolamento del sito che è avvenuto nel 2000.
Nonostante ciò, alcuni proprietari, anche se trasferiti altrove, curavano i terreni e manutenevano le loro case. Ma l’incendio del 2021 ha inferto un colpo mortale. È in totale abbandono, le case stanno crollando e la natura riconquista lo spazio che gli era stato tolto.
Una vita breve, poco più di un secolo e Sauccio è scomparso!

Ringrazio per le notizie Giuseppe Battaglia e Pina Tripodi. Approfondimenti:
a pag 153 lo studio realizzato nel 2004
https://www.laltroaspromonte.it/portfolio-articoli/segni-delluomo-nelle-terre-alte-daspromonte
Un’escursione a Sauccio è descritta a pag. 95 del libro
https://www.laltroaspromonte.it/portfolio-articoli/il-parco-nazionale-daspromonte
Un video d’epoca di una delle ultime gualchiere in Italia https://fb.watch/kMHa1JPvVu/

L’oggetto della foto è quello che rimane di una mitragliatrice, l’immagine mi è stata inviata da un escursionista che l’ha notata ai piani di Zillastro, in agro di Oppido Mamertina.
Probabilmente fu usata durante lo scontro tra le truppe italiane e quelle alleate nella Seconda Guerra Mondiale. Un tributo di sangue che si sarebbe potuto evitare. Gli alleati invece pretesero che l’armistizio non venisse subito reso noto per evitare che i tedeschi si ritirassero rapidamente dalla punta dello Stivale.
All’indomani della stipula dell’armistizio del 3 settembre 1943, il 185° Reggimento della Divisione paracadutisti “Nembo”, mandato in Calabria per fermare l’avanzata delle truppe alleate, si trova in Aspromonte, ai piani di Zillastro. Sono esausti per le lunghe marce, per le perdite inferte dall’aviazione nemica, con poche scorte alimentari. Sono però fermi nella volontà di opporsi agli Alleati, che non sono più nemici. Ma i parà non lo sanno. Regna il caos: i tedeschi si ritirano, le altre truppe italiane si arrendono al nemico o disertano.
Sfiniti, al sopraggiungere della notte, si accampano nel bosco ma non si avvedono che sono stati circondati dal reggimento canadese “Nuova Scozia”.
Alle prima luci dell’alba l’amara scoperta: 400 paracadutisti contro cinquemila soldati canadesi. Nonostante la soverchiante disparità tentano di rompere l’accerchiamento. Essendo anche a corto di munizioni, fanno uso persino delle armi bianche ingaggiando un violento corpo a corpo. Inevitabilmente vengono sopraffatti lasciando sul campo di battaglia decine di morti e di feriti.
L’ammirazione del comandante del reggimento canadese è tale che, dopo aver ordinato il cessate il fuoco, ai superstiti fatti prigionieri e liberati dopo l’avvenuta comunicazione dell’armistizio, esprime il suo apprezzamento.
Su quell’altopiano, dove il bosco ha ormai coperto ogni traccia dell’inutile battaglia, una stele ricorda quei valorosi.

Per approfondimenti “I paracadutisti del Reggimento Nembo in Aspromonte e la Battaglia dello Zillastro di Cosimo Sframeli”.

Erano rimasti solo due pastori nel territorio di Africo in Aspromonte: Santo Morabito u Russicatu a Casalnuovo con circa 300 capi e Mimmo Criaco u Micciu nella montagna di Scapparone con 400 animali.
Alla fine dell’anno scorso u Russicatu ha deciso di vendere le capre e in questi giorni ho appreso che anche u Micciu ha deciso di abbandonare la pastorizia.
Non sentiremo più lo scampanio delle greggi, i richiami dei pastori, i nostri passi non si incroceranno con i loro. La montagna sarà deserta. Pur tra le tante contraddizioni di una attività che era arricchimento e depauperamento del territorio, abbiamo perso un pezzo di civiltà dell’Aspromonte.
Le immagini sono di alcuni dei tanti pastori incontrati nel mio camminare, molti ormai scomparsi. Da ognuno ho cercato di raccogliere memorie. Di seguito alcuni link per approfondimenti.

https://www.facebook.com/altroaspromonte/posts/pfbid02CGcysEHRMFnuY2kfYjxfHFE2t1HgiVmoGKCvdJf4qKDboi2WsP1qj6LNoYp2XMC5l
https://www.facebook.com/altroaspromonte/posts/pfbid02Wd6J4dgiAinmtz8JKfNd1gpVrurAP1DzENpjEGYUk9UwjT4H4v63uja8FuQupn3kl

Tra le divinità che popolano i boschi posso affermare di aver conosciuto gli elfi. Tali volevano essere, in totale simbiosi con la natura, alcuni giovani, uomini e donne, che nella prima metà degli anni ’90 del secolo scorso, si stabilirono nel pianoro in località Ficaro, a monte di San Giorgio Morgeto.
Lasciatasi alle spalle la vita moderna, decisero di fermare il tempo e vivere senza l’aiuto di mezzi tecnologici: energia elettrica, acqua corrente, telefono, ecc. ma niente gli mancava di tutto ciò.
Ricercatori apolidi volontari provenienti da diversi paesi europei avevano realizzato un Villaggio Universitario Pilota (brevemente VUP) dove conducevano ricerche sull’autosufficienza nell’ambito dell’habitat, dell’alimentazione, della salute e dell’energia. Rigorosamente vegetariani coltivavano l’orto con antiche varietà di ortaggi, accendevano il fuoco frizionando un bastoncino, proponevano la “silvilizzazione” come tecnica che sperimentavano con l’intento di applicarla nelle aree del mondo a rischio desertificazione.
Il villaggio, denominato «Fonte Sole», era situato a circa 900 m. di quota tra boschi di faggi. Marianne, Valerie, Olifan, Liparus questi alcuni dei loro nomi, vivevano in tende da loro realizzate, simili ai tepee indiani, con focolare centrale, realizzate in legno e tela. Proponevano soggiorni per imparare l’uso delle piante selvatiche, la costruzione di tende, le tecniche dell’agricoltura biologica.
Ne scrissi nella mia prima guida sull’Aspromonte, a pag. 193
https://www.laltroaspromonte.it/portfolio-articoli/il-parco-nazionale-daspromonte/
Una vita in simbiosi con la natura, un’organizzazione tribale e una visione animista del mondo.
Per molti una scelta estrema ma che, in anticipo sui tempi, faceva riflettere su quanto ci siamo allontanati da un equilibrato rapporto con la natura.
ADDENDA
Di seguito il link a uno dei protagonisti di quest’esperienza.
https://luigisenatore.wixsite.com/capannasudatoria/bio
Per quegli strani ricorsi della storia il parco Ecolandia a Reggio Calabria nel 2019 ha realizzato delle tende simili a quelle del VUP affidandone il montaggio a Demetrio D’Arrigo e a Lillo Gioffrè. Quest’ultimo lo trovate ripreso in una foto del 1991 all’interno di una tenda del VUP.

L’erica arborea è un arbusto sempreverde diffuso in Aspromonte. Spesso si associa al leccio formando oscure e dense gallerie. In dialetto detta “brivera”, che deriva dal francese bruyère. Dalla radice dell’erica si estrae il ciocco (a zzumpa in dialetto), un legno molto duro dal quale si ricavano pipe pregiate. In Aspromonte agli inizi del 1900 furono imprese tedesche e francesi ad avviare le prime attività industriali con decine di impianti sulla ionica e sulla tirrenica. Col tempo le maestranze locali acquisirono l’esperienza per mettersi in proprio tanto che sino agli anni ’70 del secolo scorso l’estrazione e la lavorazione del ciocco costituì un’importante risorsa per le popolazioni montane.
Nel 1995 ho conosciuto Micu Raso u Zuccaru, uno degli ultimi cioccaioli a Sant’Eusebio (San Giorgio Morgeto). Mi mostrò la zappaccetta (sciamarro in dialetto), l’attrezzo a due lame, una a forma di zappa per liberare il ciocco dal terreno e l’altra come un’accetta per tagliarlo dalla radice.
Per saperne di più ho visitato in quell’anno la fabbrica di pipe, ormai abbandonata, di San Lorenzo Marina.
Stabilimento creato negli anni ’50 che commerciava con Inghilterra, Stati Uniti, Sudafrica ma che subì negli anni ’80 una crisi determinata dalla diffusione della sigaretta e dai prezzi competitivi che aveva il ciocco proveniente da Spagna, Grecia, Corsica anche se di qualità inferiore. Resistette per alcuni anni importando ciocco da altre nazioni e poi producendo cassette di legno per l’ortofrutta, manici di legno ed altri materiali, sino a quando chiuse. Vi lavoravano oltre cento operai.
Il processo di lavorazione era lungo e laborioso. Il ciocco, giunto dalla montagna, veniva depositato
in un locale, ogni giorno andava bagnato e tenuto umido coprendolo con sacchi per evitare che si spaccasse. Nella segheria si selezionava il materiale per qualità (importanti sono le venature) ed il segantino individuava quanti abbozzi poteva trarre dal ciocco (solitamente 3-4). Poi si passava alla bollitura (14 ore continue) e l’acqua diventava rossa per il tannino che rilasciava il legno. Tolti dalla caldaia gli abbozzi venivano coperti con sacchi per evitare che raffreddassero bruscamente e spaccassero. Si lasciavano poi 5-6 mesi in essiccatoio.
In un altro fabbricato si lavorava l’abbozzo per ricavarne le pipe. Una macchina creava il fornello, una seconda la canna e una terza il fondo; poi il buco nella canna per inserire il bocchino e poi il buco nel fornello. Si lisciava con la pomice e si passava alle donne che la raffinavano ulteriormente con carta vetro di diversa grana. Si faceva un ultimo controllo e in caso di difetti rimediabili s’interveniva con stucco. Alcune venivano colorate. Si tornava poi ai tamponi (cotone) per lucidarle e risaltare le venature. In ultimo si marcavano (Italy) e s’imballavano in scatoli a dozzine.
Ora la fabbrica di San Lorenzo Marina è in abbandono. La Soprintendenza ha posto un vincolo come bene che non può cambiare destinazione d’uso ma andrebbe recuperato.
A conservare la maestria di quest’arte rimane a Reggio Calabria l’artigiano Fabrizio Romeo che in via S. Giuseppe, 87 ha il suo laboratorio. Discende da coloro che impiantarono la fabbrica di San Lorenzo ed è cresciuto in quei luoghi apprendendo l’arte dal padre Sebastiano e dai prozii Domenico e Peppe. Ora le sue pipe sono richieste in tutto il mondo.

Approfondimenti: un saggio di G. Pontecorvo-V. Lenzo tratto da Calabria Sconosciuta n 67/1195 https://drive.google.com/file/d/1j-DfZ8sPQtPHIGXFqt_4XNE6r-uc_UG_/view?usp=share_link
Un articolo del 1990 di un grande giornalista dell’epoca inviato in Aspromonte. Di pipe e di Fabrizio Romeo scrisse a chiusura dell’articolo https://www.laltroaspromonte.it/3d-flip-book/ricordare-aspromonte/
Infine una tesi di laurea consultabile alla biblioteca di Agraria dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria http://www.bibliotechecalabria.it/SebinaOpac/resource/produzioni-sostenibili-nel-parco-nazionale-dellaspromonte-analisi-della-potenzialita-dellutilizzazio/RCA0769195?sysb=RCAUNIRC&tabDoc=tabcata

 

Un inverno eccezionale quello del 2017. La neve scese a quote così basse che Pietra Cappa venne avvolta interamente dal bianco. Ripropongo il racconto di quel 7 gennaio.
“Che la nevicata fosse unica, tutti l’hanno potuto apprezzare ma vedere l’Aspromonte in tali condizioni è una fortuna concessa a pochi. Stamane, io, Patrizia, Filippo, Pietro e Mariarosaria abbiamo lasciato il tepore delle case attrezzati e abbigliati come se dovessimo scalare la nord del Nanga Parbat ma per obiettivo la ionica sperando che da quel versante la montagna fosse raggiungibile con meno difficoltà, ma la neve iniziava dal mare. Vorremmo vedere Pietra Cappa. Chiamiamo gli amici di Natile ma ci dicono che Natile Vecchio è bloccato per la neve già alcuni km prima del paese. Chiamiamo San Luca e la neve inizia dal paese e lì ci dirigiamo. Abbiamo già problemi con l’auto nel superare i primi tornanti a monte del paese e la posteggiamo. L’idea di imboccare un sentiero che sale verso Pietra Cappa viene prudentemente abbandonata per seguire la strada. Guadagnato qualche centinaio di metri di quota delle vere tormente di neve ci avvolgono ma resistiamo. Saliamo ancora per qualche km ed a circa 600 m di quota intravediamo, tra la bufera, Pietra Castello e poco avanti si staglia enorme un’apparizione! Quasi un altro pianeta avvolto in un gelo siderale: PIETRA CAPPA! Negli anni passati in tanti l’avevamo ammirata con la piatta cima imbiancata, quasi un pandoro, ma mai l’avevamo vista integralmente vestita di neve, comprese le pareti verticali!
Sembrava la nord di un ottomila! Poco avanti sapevo dell’esistenza di uno stazzo che ci offre un po’ di riparo e (quasi) di corsa giriamo i tacchi e torniamo sui nostri passi (che nel frattempo la nevicata aveva cancellato velocemente). Un cane ci chiede “soccorso” e ci segue felice sino in paese dove, davanti al caminetto della sempre ospitale casa Stranges riprendiamo temperature meno polari.”

<<Nella piazza ballano, suonano, cantano notte e giorno, notte e giorno tuonano i boschi, alla fine sono diecimila, quindicimila persone che non fanno altro in quella valle stretta; l’eco ha un gran daffare a ripetere tutto quello strepito inestricabile, e fa un lungo fragore confuso. I sopraggiunti vedono e sentono la festa dalle terrazze sui monti, la valle che brucia come un vulcano e vi si buttano dentro col loro rumore.>> Così Corrado Alvaro descrive la festa di Polsi.
Polsi è luogo simbolo dell’Aspromonte. incastonato nell’ombelico di questa montagna, ai piedi del Montalto e alle origini della fiumara Bonamico.  Al santuario della Madonna della Montagna giungono, da secoli, migliaia di devoti. Il pranzo a base di carne di capra è uno dei riti del pellegrinaggio a Polsi; prosegue anche per l’intero pomeriggio in un susseguirsi di pietanze come per sconfiggere una fame atavica. Sino a pochi decenni fa le capre venivano uccise e macellate sul posto, lungo il torrente che diveniva rosso per il sangue.
Una pratica che veniva giustificata per l’assenza di energia elettrica e quindi non poter conservare le carni macellate. Nel 2005 la luce arriva a Polsi e termina tutto ciò. Ma è bene documentare e ringrazio Roberto Lombi per queste sue immagini dei primi anni ’80

ATTENZIONE, LE IMMAGINI CHE SEGUONO POTREBBERO URTARE LA VOSTRA SENSIBILITÀ.

 

 

 

La questione è complessa e divisiva. Conosco tanti pastori e il loro lamento è unanime: hanno liberato i lupi, ci sono centinaia di lupi e sono pericolosi, mi hanno ucciso centinaia di capi, ecc.
Al di là delle fake news (nessun lupo è stato liberato in Italia né sono mai stati registrati attacchi di lupi all’uomo nell’ultimo secolo. In Aspromonte si stima una popolazione di 30-40 lupi) vi sono diversi accorgimenti per mitigare l’impatto del lupo sul bestiame: cani da guardiania adeguati, pastori al seguito delle greggi, adeguati ricoveri, indennizzi, ecc.
Ritengo anche che il vero pastore in Aspromonte sia raro. La gran parte, la mattina, libera gli animali e li lascia incustoditi, con al massimo qualche cane spesso non idoneo. La sera li richiudono in recinti spesso insicuri e vanno via. Ovvio che così, capre o pecore, siano facile preda del lupo. Diversi di questi cosiddetti pastori sono borderline. Alcuni obiettano che le greggi esercitino un controllo della vegetazione infestante e quindi possano tenere puliti i sentieri ma in alcune aree il pascolo eccessivo e/o incontrollato impedisce la rinnovazione del bosco. Pochi sono gli esempi di attività che creano economia nel rispetto delle tradizioni, della legalità, della qualità e salubrità dei prodotti. Molti non si sono voluti adeguare ai tempi facendo una pastorizia moderna come in altre montagne e regioni (per esempio la Sardegna). Spesso non vivono di pastorizia ma è un secondo o terzo lavoro, alcune volte in nero, con un pesante impatto ambientale e quindi senza una ricaduta positiva sul territorio e senza nessun futuro. Ad aggravare il quadro vi è l’assenza del Parco. Probabilmente ci stiamo avviando verso una montagna senza pastori (e questo in parte vorrà dire perdita di tradizioni e assenza di una delle poche presenze in montagna) e con sempre più escursionisti, guide, amanti della natura, ecc.

Rimane dura la vita del lupo in Aspromonte dato che sono diversi gli esemplari morti per incidenti, avvelenamento, bracconaggio. Ecco gli ultimi.
Domenica 15 gennaio 2023. Sono in escursione lungo il versante sinistro della fiumara La Verde (Samo). So di escursionisti che stanno camminando per monte Scapparone (Africo). Io sono sul versante opposto della fiumara La Verde, quasi ci vediamo. Ci mandiamo messaggi col telefono per comunicare le nostre posizioni. Mi inviano la foto di un animale morto chiedendomi se è un lupo: purtroppo si! È un maschio di circa un anno ucciso da tre colpi d’arma da fuoco, probabilmente da bracconieri (la caccia nel Parco è vietata) impegnati in una braccata al cinghiale, che trovandosi un lupo davanti non hanno esitato a ucciderlo. Lo segnalano alle autorità competenti.
Sempre intorno alla metà di gennaio del 2023 un altro lupo morto, nell’area settentrionale del Parco. Questa volta probabilmente investito da un’auto. Come avvenne circa trent’anni fa sempre nello stesso luogo.
Ma tornando indietro di 10 anni ricordo una lupa vittima di un laccio metallico e poi finita a fucilate. Fatta ritrovare su di una panchina a Brancaleone con chiaro messaggio mafioso.
E anche le diverse tagliole incontrate lungo i sentieri, col rischio di lasciarci una caviglia. E i tanti bocconi avvelenati inclusa una pecora imbottita di veleno che bruciammo per tentare di neutralizzare l’effetto nefasto.

ATTENZIONE, LE IMMAGINI CHE SEGUONO POTREBBERO URTARE LA VOSTRA SENSIBILITÀ

 

Camminando in Aspromonte se ne vedono di tutti i colori! In agro di Africo nel gennaio del 2023 mi sono imbattuto in un porcastro (incrocio tra cinghiale e maiale) scuoiato. Gli era stata tolta la pelle come fosse un vestito. Un amico veterinario mi ha spiegato che in tal modo i cacciatori possono macellare l’animale senza che la carne si sporchi toccando terra. Usando quindi la pelle come fosse una tovaglia.
Questo avviene quando l’animale viene ucciso a grande distanza da un automezzo che possa trasportarlo e portarlo in un luogo dove lavorarlo agevolmente. Dovendo quindi fare ore di cammino a piedi è gioco forza macellare l’animale sul posto portando via a spalla solo la carne, le mezzene. Insomma, meglio degli apache che scotennavano i visi pallidi!
Tuttavia, il fatto che l’animale ucciso fosse una scrofa prossima a partorire (si vedono diversi feti quasi completi) rende l’episodio particolarmente crudele.

ATTENZIONE, LE IMMAGINI CHE SEGUONO POTREBBERO URTARE LA VOSTRA SENSIBILITÀ.

 

 

Vado in aeroporto ad accompagnare mio figlio e incontro Marco Neri, amico pilota conosciuto alcuni decenni fa. Non ci vediamo da tanto tempo ma sta per fare un volo con uno degli apparecchi dell’Areo Club dello Stretto e mi invita a seguirlo. Accetto su due piedi e lo seguo. Marco è stato tra i promotori negli anni ’90 di iniziative imprenditoriali nel settore dell’aviazione e collaborò ben volentieri alle mie attività turistiche legate all’Aspromonte. Seguo le indispensabili procedure per poter salire a bordo e osservo le meticolose operazioni di preparazione del velivolo. Finalmente si impegna la pista di decollo ed è sempre una meraviglia come un mezzo in fin dei conti meccanicamente semplice possa portarti a migliaia di metri di altezza.
Il volo, sino alla fiumara Amendolea e ritorno, è magnifico, complice il cielo terso, l’esiguità del mezzo e la bravura del pilota.
L’Aspromonte, la terra mi fa quasi tenerezza, con dall’alto, evidenti, i segni imposti dagli uomini per viverci (strade, dighe, ponti, elettrodotti, ecc.) e con le ferite arrecate (incendi, frane, ecc.).
E mi tornano in mente i tanti voli fatti con i velivoli più disparati: elicotteri delle varie Forze dell’Ordine, aerei da diporto e perfino idrovolanti. Spesso col portellone aperto così da sporgermi fuori per scattare le foto. Per fotografare in tali condizioni imparai a guardare nell’obiettivo senza risentire di impennate, virate e altre manovre che mettevano a dura prova lo stomaco. Le lunghe procedure per essere autorizzati dall’Aeronautica Militare alla pubblicazione delle foto. Ora tra droni e foto satellitari è tutto molto più facile. Occasione importante fu quella voluta dal senatore Sisinio Zito che per favorire la creazione del Parco Nazionale dell’Aspromonte portò in visita nel 1990 la Commissione Ambiente del Senato. E volle me per raccontare la montagna ai senatori durante un volo memorabile.
Sempre nell’intento di far conoscere un altro Aspromonte.

Ps: non ero attrezzato di macchina fotografica, né l’angustia dell’abitacolo consente facili riprese. Quindi quello che pubblico è qualche semplice scatto col cellulare, tra l’altro di un modello di media qualità.