L’Aspromonte mi ha svelato il suo volto primordiale, un’ascia preistorica tra l’età del Bronzo antico e quella del Bronzo medio quindi 1.600-1.500 anni avanti Cristo.
Ho trovato l’esemplare, casualmente e senza alcuna attività di scavo, in buono stato di conservazione, lungo un sentiero nella vallata della fiumara La Verde in località Arioso (comune di S. Agata del B.), territorio che frequento da diverso tempo ma ogni volta che vi torno la montagna mi rivela qualcosa di nuovo. Conteso in antichità tra le poleis greche di Reggio e Locri e pertanto indagato da studiosi come Cordiano, De Nittis, Sculli, Stranges, Minuto, Tedesco e altri.
Ho seguito, con Domenico Malaspina e Gianni Posillipo, un tracciato sul versante destro idrografico della fiumara La Verde, che entra ed esce da diversi valloni. Uno degli assi viari che collegava Casalnuovo alle fertili terre di Scrisà e poi scendeva alla marina. È il sentiero 115 del Parco Nazionale dell’Aspromonte, Samo-Casalnuovo, non semplice da percorrere ma per escursionisti attenti.
Maggiori info sulla località del ritrovamento in https://www.facebook.com/altroaspromonte/posts/pfbid0s6vMXHiWZrNAvAJNFCPE6BJvm79Qnx5Hw6wpcF1kfifkwuoqzeTNfJhNAbAGVC2tl
Ho consegnato il reperto alla direttrice del Museo Archeologico Nazionale di Locri, arch. Elena Rita Trunfio che ne ha dato immediata comunicazione alla Soprintendenza APAB. L’ascia sarà oggetto di studio da parte di archeologi della preistoria e, mi auguro, esposta nel Museo.  Mi rimane indelebile l’emozione di aver tenuto tra le mani un oggetto tanto prezioso e carico di storia e sono grato all’Aspromonte per avermi ricompensato così grandemente per l’impegno da me speso nel conoscerlo e valorizzarlo.

Ringraziamenti: arch. Domenico Malaspina, archeologa Maria Teresa Iannelli.

No, non è un riferimento calcistico alla squadra del Condofuri. Si tratta dell’ennesimo toponimo che mi ha incuriosito e del quale ho cercato di capire il significato.
È riportato nell’IGMI del 1990 e del 1865 ed è la traccia di una storia lunga e complessa. Indica delle aree di proprietà del Comune di Condofuri ricadenti all’interno di quello di Roccaforte del Greco.
La questione è giuridicamente articolata perché attraversa secoli di storia dei difficili e contrastati rapporti tra lo Stato e i baroni: vasi di ferro, tra i quali si trovava quello di coccio del popolo.
Verso la fine dell’epoca feudale (nel basso medioevo), i baroni, profittando della scarsa attenzione del Sovrano ai beni pubblici, cominciarono a chiudere boschi e terreni del demanio feudale recintandoli, mettendoli a coltura e chiudendoli con siepi o muri: nacquero così le “difese”.
Stesso intento avevano i “parchi”, le “chiuse”, le “menzane”, allo scopo di coltivarli sottraendoli così all’uso dei cives, del popolo. Alle offerte di transazioni di alcuni usurpatori il Fisco aveva accettato concedendo agli offerenti solo il diritto di superficie con l’obbligo di pagare la fida (tassa sul pascolo degli animali) e il giogatico (tassa sui buoi adoperati per la semina). Alla fida era conseguente la diffida, cioè una multa per i trasgressori.
Ma le usurpazioni non terminarono, tanto che lo stesso Stato non mancò di erigere proprie difese, soprattutto al fine di individuare aree riservate all’esercizio della caccia.
In Calabria il fenomeno si verificò soprattutto nei grandi boschi della Regia Sila. Gli usurpatori avviarono contenziosi che durarono secoli e che alla fine li videro vincitori nei confronti dello Stato, il quale dovette concederne la proprietà con Regio Decreto.
Quelle che però soffrirono di più furono le popolazioni che si videro precluse ampie porzioni di bosco e di territorio dagli usi civici (legnatico, caccia, pascolo, semina, acquatico, erbatico, fungatico, ecc.) che da millenni esercitavano liberamente e che spesso costituivano importante sostegno ad una vita stentata.
Con il Regio Decreto 10 marzo 1810 di Gioacchino Murat fu stabilito che i demani usurpati dai baroni con le “difese” dovevano tornare nel possesso dei Comuni.
Anche il nuovo stato unitario sabaudo con una serie di provvedimenti tentò in qualche modo di dare soluzione all’annosa e controversa vertenza delle “difese”.
Probabilmente in tal modo la Difesa di Condofuri transitò all’attuale Comune di Condofuri.

Ringraziamenti
Il personale dell’Ufficio Tecnico del Comune di Condofuri, la prof. Anna De Luca del Dipartimento di Agraria dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, il dr. Francesco Manti e l’arch. Domenico Malaspina. Mi hanno aiutato alcune letture quali Storia della natura d’Italia di F. Pratesi (2001); Latifondo di M. Petrusewicz (1990) e altre.

 

 

IMMAGINI

  1. Stralcio IGMI del 1990 con evidenziate le località Difesa di Condofuri e Piani di Salo
  2. Stralcio IGMI del 1865 con evidenziata la località Difesa di Condofuri
  3. In verde alcune delle aree gravate da usi civici nei pressi di Difesa di Condofuri.
  4. Schermata di un GIS con perimetrate alcune aree gravate da usi civici nella provincia reggina. Intuibile che la mia ricerca si è limitata ad aprire alcune finestre su di un passato tutto da indagare che spero impegni giovani menti più attrezzate.
  5. Antica planimetria di una difesa silana
  6. Anche il casello di Piani di Salo è del Comune di Condofuri ma nel territorio di Roccaforte. Anch’esso protagonista di una storia complessa

 

La transumanza è una pratica documentata sul finire dell’800, quando tale forma di allevamento comincia a prevalere sulla pastorizia nomade. Nasce dall’esigenza di spostarsi per garantire pascoli migliori alle greggi. Diffusa in tutto il Mediterraneo, si distingue in “verticale o alpina” da quella “orizzontale”, che sfrutta pascoli situati anche a grande distanza. In Italia ha caratterizzato soprattutto le regioni del centro con gli spostamenti dall’Abruzzo alla Puglia di migliaia di capi lungo i tratturi.
In Aspromonte, per la vicinanza del mare alla montagna, si tratta quasi sempre di una transumanza limitata, poiché la distanza generalmente può essere coperta nel corso di una giornata di cammino.
Nel 2019 la transumanza è stata inserita dall’UNESCO nella Lista del Patrimonio Culturale Immateriale.
Ho cercato di documentare tale pratica prima che scomparisse ma non è stato semplice. Nel 2006, grazie alla disponibilità di Vincenzo Romeo du croccu, in una infuocata giornata di maggio, lo abbiamo seguito da Malderiti (periferia di Reggio Calabria) a Santa Trada (Roccaforte del Greco).
Il gregge era composto da circa cento capi, in gran parte pecore dalle quali una decina di capre si tenevano altezzosamente distaccate. E 5 o 6 cani da pastore. Numero non ben definito dato che ne perdemmo alcuni per strada, ma senza che il pastore se ne curasse troppo. A supporto un giovane asiatico. Al seguito io, Lillo Gioffrè e Sabrina Falcomatà. Marco, figlio del pastore e la moglie con un automezzo che trasportava le masserizie. Appuntamento quando è ancora buio. Assistiamo alla mungitura e alle prime luci dell’alba si parte. Il percorso nel tratto prossimo alla città si snoda tra fiumare/discariche, condomini, strada asfaltate. Dopo i pianori di Gallina superiamo Puzzi e Armo giungendo ai pedi di monte San Demetrio che conquistiamo, dopo ben 600 m di salita, tagliando, ove possibile, gli infiniti tornanti della strada. Il caldo è insopportabile, soprattutto per le pecore non tosate. Infine, ai campi di Santa Venere, intorno ai 1000 m. di quota, tra castagneti e pinete giunge un po’ di refrigerio. Ma ci rinfranchiamo ancor di più grazie agli abitanti delle case rurali che incontriamo. Il passaggio delle greggi era un appuntamento che si ripeteva negli anni e ci offrono da bere e da mangiare.
Giungiamo all’incrocio con la SS 183 Melito-Bagaladi-Gambarie e ne percorriamo un breve tratto in salita sino alla località Ritorno. Finalmente iniziano boschi, sentieri, ruscelli ma proprio qui, per una caduta stupida (ma vi sono cadute intelligenti?), mi ferisco alla mano.  In quel frangente non abbiamo nemmeno la dotazione di pronto soccorso lasciata, altra stupidaggine, nell’auto ora lontana. Mi fascio come posso e si va. Ai piani di Cufalo il gregge riconosce i luoghi e accelera il passo. Noi invece siamo provati e ormai quasi all’imbrunire guadagniamo il casello di Croce Melia a 1.201 m slm, che sancisce la fine della transumanza.
Ma la giornata per me non è terminata. Rientrati a Reggio Lillo mi lascia alla guardia medica che però, impossibilitata a intervenire per la profondità dello squarcio, mi manda al Pronto Soccorso dell’Ospedale. Mia moglie, medico, ma in quella notte anche lei di guardia, non mi può accompagnare. Chiamo l‘amico Francesco e mi faccio portare al P.S. dove, dopo radiografie e visite varie, mi danno una quindicina di punti. E con questo ulteriore ricordo della transumanza a notte fonda torno, finalmente, a casa.
Sull’argomento la letteratura è ampia. Un mio articolo è in https://www.laltroaspromonte.it/portfolio-articoli/la-transumanza-nelle-pratiche-silvo-pastorali-due-percorsi-in-aspromonte/?fbclid=IwAR0hTZgoodOcYBwlQ9BJ6bhrhHI8e6bY9i71KZ7Dq3HTSwU3r0NdZqG8lXg e una gustosa intervista al pastore Vicenzu du croccu è in https://www.youtube.com/watch?v=MCPO35FxFVo&t=8s

È colpa dell’amico Pietro Garofalo se mi ha coinvolto in una sua curiosità: percorrere il Serro Castello. In realtà non ci è voluto molto. L’area, a sud dei Campi di Bova, è tra quelle meno percorse dagli escursionisti. Il toponimo, ricorrente in Aspromonte, è indicativo di una emergenza rocciosa e già l’esame della cartografia evidenzia un affilato crinale che si protende come un trampolino puntando alla confluenza degli impluvi Marte e Cipore con la fiumara Palizzi.
Imbocchiamo una sterrata di certo realizzata dalla forestale qualche decennio fa per impiantare alcuni rimboschimenti dei quali restano sparuti boschetti di pino e di robinia. Come era prevedibile dopo pochi tornanti il tracciato è corroso dalle frane ma le piste delle vacche, che aprono un varco nella fitta vegetazione, ci conducono al Serro Castello. Il percorso è disagevole, tormentato. Dove si fermano le vacche proseguono le capre e infine i cinghiali e noi ne seguiamo le tracce. O cerchiamo di tenerci sulla cresta rocciosa dove più radi sono rovi e spolassi (Spartium infesta). Siamo consapevoli che non vi è una meta. I sentieri, le antiche vie sono scomparsi, fagocitati da una natura tornata padrona degli spazi che l’uomo gli aveva tolto. Più volte stiamo per rinunciare ma, ad ogni pinnacolo che raggiungiamo, ci facciamo attrarre dal successivo.
Nel cielo una coppia di rapaci sale sempre più in alto grazie a una termica mentre noi scendiamo sempre più giù perdendo quota e ignorando scientemente che la salita, il ritorno al punto di partenza sarà durissimo. Sino all’ultimo puntone, il più prossimo al fondo della valle comunque irraggiungibile. In una scalata al contrario, dove si scende per conquistare la meta.
Conquistatori dell’inutile, grati alla montagna che ci consente la nobiltà di gesti gratuiti e appaganti come misurarsi con sé stessi e con la grandezza della natura.

 

La figura della Sibilla è antichissima e ricorrente in diverse montagne dell’Appennino (come i Sibillini che ne prendono il nome) ma in Aspromonte costituisce un singolare collegamento con la Madonna della Montagna di Polsi. Ad essa, infatti, figura benigna e materna, si contrappone quella negativa e vendicativa della Sibilla detta anche Sibilia, Maga Saba, Saba Sibillia. La tradizione popolare ritiene che dimori in una grotta nascosta tra i dirupi che da Montalto, tra Puntone Iuncàri e la Contrada Crànzari, precipitano verso Polsi.

Allorché da questi impervi valloni precipitano massi o piccole pietre staccantisi spontaneamente dal fianco del monte, i pastori fuggono atterriti, vedendo nel fenomeno un ammonimento della Sibilla che non vuole essere visitata da alcuno; pertanto, quei luoghi sono pressoché inviolati e guardati con timore. Per tal motivo quando termina a Polsi la processione mariana, la statua della Madonna viene fatta girare rapidamente su sé stessa in modo che guardi verso Montalto, dove è la Sibilla che vede gli omaggi di fede dei cristiani. Essa, infatti, freme e riaprirebbe la lotta contro il bene provocando terremoti, gridando e lanciando massi sulla folla dei pellegrini se si accorgesse che la statua della Madonna le rivolge le spalle. È per questo che la Madonna, dalla sua nicchia, guarda continuamente verso Montalto: ella veglia continuamente sui suoi fedeli tenendo a bada le ire della Sibilla.

Così la descrive il Carbone-Grio in “Le caverne del subappennino” del 1877: “La Saba-sibilia s’apre a levante del Pater Appenninus, sul punto culminante di Montalto. Una selva di pini, di larici e di altre selvagge essenze ingombra il sito su cui si apre la grotta ch’è argomento di superstiziose, paure ai montanari e legnaiuoli dei paesi circostanti, i quali raramente si avventurano soli su quella rupe presso che inaccessibile”.

La sua figura misteriosa ha colpito Nicola Tripodi di Arghillà, l’arte delle Terre, che ne ha magistralmente interpretato il mito https://www.arghilla.com/ Vi sono stato anni fa, guidato da Antonio Barca, da Serro Cerasia e poi superando scalinate rocciose quasi verticali. Fino a raggiungere un anfratto ombroso ma non profondo. La Sibilla non l’abbiamo trovata ma l’ambiente incuteva timore e abbiamo guadagnato il piano di Serro Juncari grati di non averne scatenato l’ira.

 

L’estate è la stagione preferita per recarsi al Santuario della Madonna della Montagna sito a Polsi. È molto forte il legame di questo luogo con le popolazioni aspromontane ma anche siciliane. Ormai da alcuni secoli vi giungono numerose carovane di devoti. Alle cavalcature di una volta si sono oggi sostituite automobili o camion rusticamente attrezzati. Ogni paese compie il pellegrinaggio secondo un calendario che tenta di regolare l’afflusso di migliaia di fedeli. Ma soprattutto in occasione della festa, il 2 settembre, l’anfiteatro naturale in cui è posto il Santuario si trasforma in un enorme calderone di grida, canti, balli, odori, gesti, colori. Tutto ciò trasporta il visitatore in un’atmosfera primordiale. Sul fuoco, con paziente maestria, si arrostiscono chili e chili di carne di capra. Il pranzo pantagruelico è uno dei riti del pellegrinaggio a Polsi; prosegue anche per l’intero pomeriggio in un susseguirsi di pietanze come per sconfiggere una fame atavica. Al cibo segue la tarantella al suono di organetto e tamburello, balli ai quali i danzatori partecipano con intensità e trasporto. Spesso, quando il ritmo diviene più frenetico, anche i suonatori sembrano cadere in trance. A Polsi ai suoni pagani delle danze si mescolano quelli sacri del Rosario e delle antiche litanie intonate dalle donne.
Tante sono le antiche vie che conducevano a Polsi, alcune sono ancora caparbiamente percorse a piedi da pellegrini, come la via da Prena dalla tirrenica e a via di Riggitani dallo Stretto.
La prima attestazione di pellegrinaggio all’eremo risale al 1152. In epoca bizantina frequenti erano i contatti religiosi tra Calabria e Sicilia. San Lorenzo di Frazzanò (Messina), trovandosi a Santa Domenica di Gallico (RC) si recò a Polsi. Ecco l’episodio tratto dalla biografia del santo riassunto dal prof. Domenico Minuto nel suo “Otto Santi” scritto per Città del Sole Edizioni e dal quale traggo il brano seguente.
Dopo di ciò si recò da lui un reverendo eremita, discendendo dai monti dell’Appennino e tenendo in mano un bastone che nella sommità recava la forma della croce; e gli disse: “Salve, padre santo e venerabile. O padre, mi manda da te il mio abate perché io ti preghi molto umilmente a nome suo che tu venga da noi il prossimo giorno di Pasqua per celebrare la messa”. Il santo, accogliendo l’invito, si recò all’eremo impiegando tre giorni, uno per andare, uno per stare ed uno per tornare. Per giungervi, dovette salire fin sulla cima dell’Aspromonte (chiamato “monte asperrimo”) e scendere dall’altro versante. Pertanto, il pellegrinaggio di Lorenzo a Polsi può essere considerato il più antico esempio di una pia pratica che da secoli coinvolge annualmente una immensa folla di calabresi e di siciliani.

 

Aspromonte calamita delle nuvole. Così, Norman Douglas, scrittore inglese dei primi del secolo scorso, definì la montagna più a sud della penisola italiana. Il diario di quel viaggio furono riportati nel volume “Old Calabria”, splendido ritratto della nostra regione. L’Aspromonte raccontò di averlo traversato dal Tirreno allo Ionio, da Delianuova a Bova Marina, in una sola giornata attraverso foreste, pietraie e panorami mozzafiato.
Ma l’effettiva realizzazione di tale impresa, perché tale è, ha sempre incuriosito gli addetti ai lavori. Pertanto, con un gruppo di amici, a più di un secolo di distanza da quell’impresa, ho deciso di riproporla. Con l’intento di coniugare natura, storia e piacere per la riscoperta di un viaggiatore del passato.
Un evento che va oltre lo sport, riaprendo una finestra sulla storia delle terre alte d’Aspromonte. Due comunità aspromontane, Bova e Delianuova, unite da un sentiero individuato e segnato dal GEA nel 1994 Abbiamo studiato il testo di Douglas per desumerne tempi di percorrenza, stagione nella quale effettuò la traversata, itinerario, ecc. Con la collaborazione dell’arch. Domenico Malaspina, cultore della viabilità antica, abbiamo individuato quello che riteniamo sia il percorso seguito da Douglas e con esperte guide come Demetrio D’Arrigo di Aspromonte Wild e Pietro Garofalo abbiamo organizzato gli aspetti logistici.
Una vera impresa come confermato dalla difficoltà che Douglas ha a Delianuova, la sera prima della traversata, nel trovare una guida che lo conduca sino a Bova. Tutti gli ripetono “A Montalto sì, a Bova no”. Infine, trova una guida sulla cinquantina che l’accompagna sino a Bova. Giunto alla Chora si concede una sosta per gustare del vino e intrattenersi con il prete, il notaio e altri abitanti che parlano greco. Decide infine di scendere alla stazione di Bova Marina e trova una seconda guida, “un giovane”, col quale, durante il cammino, parla, “in fluido greco-bizantino, delle faccende del suo villaggio”.
Nel suo diario Douglas così sintetizza la traversata: “Il viaggio da Delianuova a Bova, passando per … Montalto, non è raccomandabile per ragazzi o persone di salute delicata. A parte un riposino di 45 minuti, mi ci vollero 14 ore per raggiungere la città (Bova), e poco meno di 3 da qui alla ferrovia. Non v’è un solo tratto piano in tutto il percorso, e sebbene la mia guida abbia sbagliato strada 2 volte, e quindi è probabile mi abbia fatto perdere un po’ di tempo, dubito assai che un buon camminatore … riesca a coprire la distanza in meno di 15 ore.”

Il percorso è stato diviso in frazioni che vedono la presenza di un accompagnatore esperto del territorio, per affiancare gli escursionisti. Ma il ruolo di tale figura non è solo di guida bensì coinvolge soggetti che operano per la promozione dell’Aspromonte.

Frazione Delianuova-Carmelia guidata da Pino Perrone dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia, Sezione di Reggio Calabria. Ogni anno, la sezione, ricorda a settembre i paracadutisti della Divisione Nembo caduti durante l’ultimo conflitto mondiale per uno scontro con le forze anglo-canadesi, in Aspromonte ai piani di Zillastro. Con una marcia, partecipata da tutta Italia, ripercorrono il tracciato all’epoca seguito dalla Nembo.

Frazione Carmelia-Montalto guidata da Antonio Barca dell’Associazione Asper. Il sodalizio opera a Delianuova dal 2005 con giornate ecologiche, escursione in più giorni da Delianuova a Bova, convegni e collaborazioni con gli Enti locali.

Frazione Montalto-Pedimpisu con guida Pasquale Criaco di “Insieme per Africo”. L’Associazione gestisce il rifugio “Carrà”, nei pressi di Africo Vecchio e custodisce il vecchio paese e la chiesetta di San Leo. Diverse le iniziative, culturali e ambientali, organizzate ad Africo Nuovo.

Frazione Pedimpisu-Bova con Mimmo Cuppari di Naturaliter. La cooperativa, nata nel 1994, propone viaggi a piedi nelle Aree Protette del meridione d’Italia ma anche all’estero. Un’importante realtà che offre turismo sostenibile.

Frazione Bova-Bova Marina guidata da Pasquale Callea di Porpatima Trekking. L’associazione si è distinta per aver recuperato una tradizione, quella del pellegrinaggio il 5 maggio per la festa di San Leo, che vede decine di pellegrini percorrere a piedi, alcuni scalzi, i 10 km da Bova Marina alla Chora (Bova).

Un evento quindi corale che mette insieme storia e natura.E allora sabato 25 giugno 2022 alle ore 4:00 con Giuseppe Battaglia, Silvio Bagnato, Carmelo Idone e Pino Perrone sono partito dal municipio di Delianuova e dopo avere percorso 53 chilometri, con un dislivello positivo di circa 3.200 metri, dopo oltre sedici ore di cammino, alle ore 20:05 sono giunto davanti al municipio di Bova Marina.
Sono stati attraversati posti assolutamente fantastici. Unici nella loro ricca biodiversità. È sembrato di essere in un Eden.
Ai fertili piani di Carmelia si sono succedute le rigogliose foreste che ammantano il versante occidentale dell’Aspromonte sino a raggiungere il culmine del massiccio: Montalto, ornato dalla statua del Redentore.
La discesa è iniziata tra boschi di abete e faggio ma alla quota alla quale subentrano le maestose pinete di laricio il paesaggio è mutato in un girone infernale. Gli incendi della tragica estate scorsa hanno inferto un duro colpo alla nostra montagna. L’arrivo nell’area grecanica ci ha immerso in un mondo arcaico, ricco di una cultura che ha ancora tanto da insegnarci.
Infine, l’arrivo a Bova Marina con un bagno ristoratore nelle acque dello Ionio ha suggellato un’impresa unica.
Avventura che all’innegabile componente atletica unisce il comune sentire di tante realtà attive sul territorio che hanno accompagnato, si può dire quasi per mano, i cinque escursionisti. Sorretti dall’abbraccio di tanti uomini di diversi paesi ma tutti accomunati dallo stesso amore per l’Aspromonte.

Qual è la fauna presente in Aspromonte? Quali specie hanno bisogno di essere aiutate attraverso una corretta gestione? Ma soprattutto cosa si può fare? Sono queste le domande che fin da ragazzo Giuseppe si poneva quando, dalla costa, risalendo con lo sguardo le fiumare Amendolea e La Verde, scrutava gli angoli più remoti che la vista potesse concedere. La risposta fu studiare e documentare. Ovvero fare ricerca e fotografie. Così, dopo qualche anno, conseguendo la laurea in Scienze Naturali, è diventato un Naturalista. Certo, era solo un titolo, ma fin da subito ha avuto l’opportunità di lavorare per il Parco Nazionale dell’Aspromonte. Contestualmente ha anche sviluppato la passione per la fotografia naturalistica, prediligendo però l’avifauna. Ora sono trascorsi 12 anni da quando ha iniziato a lavorare per l’Aspromonte e la sua biodiversità, altrettanti da quando ha iniziato a fare fotografia. Ha avuto la fortuna di studiare in particolar modo l’Aquila reale (Aquila chryisaetos), la Coturnice (Alectoris graeca) ed il sempre più minacciato Ululone appenninico (Bombina pachypus). Grazie al lavoro di campo ha appreso tante informazioni su queste specie ma molto c’è ancora da fare per tutelarle e conservarle. Così oggi, da quel lontano 2004 in cui scrutava i crinali aspromontani dalla costa, continua a studiare e lavorare per l’Aspromonte e la sua biodiversità. Contribuendo, se pur in minima parte, alla tutela della fauna ed a una corretta divulgazione.

Per chi percorre un territorio cercando di conoscerlo, la cartografia è uno strumento importante. Se poi si vuole scrutare il passato, le carte antiche aprono un mondo affascinante. Pertanto, per quanto riguarda l’Aspromonte, ho indagato su qual è la prima carta che ne riporta il toponimo.
Secondo la geocartografia moderna (cioè il prodotto grafico di uno studioso del territorio), circa la Calabria e, quindi, all’Aspromonte, la più antica che contenga il toponimo della nostra montagna è la Carta Aragonese, la cui datazione risale al primo quarto del 1500. Infatti, l’intero sistema montuoso calabrese nell’antichità aveva un’indistinta denominazione: Sila. Termine che deriva dal greco: “materia prima, bosco”. Furono poi i normanni che introdussero la denominazione “Aspromonte”. Per approfondimenti sull’etimologia vedi https://www.facebook.com/altroaspromonte/posts/232306468688727
Vanno citate anche alcune carte tolemaiche, antecedenti di qualche decennio la Carta Aragonese. Tuttavia, esse non sono il frutto dell’attività di un geografo/cartografo, ma dello storico.
Ringrazio l’ing. Giuseppe Macrì per le puntuali indicazioni fornite. Consultate la sua interessante pagina Monumenta Cartographica Calabriae dalla quale ho tratto alcune delle carte che pubblico.
Di seguito, in ordine pressoché cronologico, i riferimenti bibliografici di alcune delle carte pubblicate.

  • Marco Iuliano, “Cartapecore geografiche”: cartografia calabra in età aragonese, in Storia della Calabria nel Rinascimento a cura di S. Valtieri. Gangemi Ed. 2002
  • Carta del Regno di Napoli, 1580. Bibliothèque nationale de France, département Cartes et plans
  • Calabriae Descrip. per Prosperum Parisium consent di A. Ortelius  1595 ca.
  • Carta corografica della Calabria ulteriore 1784 di Padre Eliseo della Concezione (Francesco Mango) (Napoli, 1725-1809)
  • Atlante geografico del regno di Napoli 1788 di Rizzi Zannoni, Giovanni Antonio (1736­1814)

 

L’industria boschiva, per una montagna ricca di legname come l’Aspromonte, ha rappresentato il più importante comparto economico del comprensorio.
Sino al secolo scorso il legname era indispensabile per l’industria navale, nella costruzione di edifici, per le botti, ecc. e la segheria era l’opificio che lo lavorava.
La ricostruzione di una segheria e molto altro ancora è riportato nel pregevole volume “Tutto scorre” di Domenico Malaspina e Antonino Sapone, Laruffa Ed. 2019. Vi leggiamo che attestazioni di segherie risalgono alla prima metà del 1400. Giuseppe Melograni, Ispettore Generale dell’Amministrazione delle Acque e Foreste nel suo “Descrizione geologica e statistica di Aspromonte e sue adiacenze” del 1823 scrive “gran numero di seghe che sono in continua azione”.
Bisogna essere grati ai due autori per il prezioso lavoro di ricerca, relativo alla vallata del Gallico, e mi auguro che tali studi vengano estesi ad altre aree dell’Aspromonte.
Purtroppo, le fonti sono lacunose. Labili tracce appaiono nella cartografia o in foto aeree dove sono riportati i tracciati delle teleferiche https://www.laltroaspromonte.it/2021/04/26/friulani-in-aspromonte/
Delle decauville, ferrovie a scartamento ridotto per il trasporto del legname sino alle segherie, rimane qualche tracciato o qualche manufatto https://www.facebook.com/altroaspromonte/posts/470508358201869
Imponente, anche se in abbandono, è la segheria di Giffone.  La segheria di Pantanizzi (in agro di Bagaladi) sino a pochi anni fa era ancora riconoscibile in alcune strutture murarie e macchinari. Ma oggi degli immobili rimane qualche brandello di muro e i macchinari non vi sono più. Una segheria veneziana è stata donata dall’imprenditore boschivo Poletto di Serra San Bruno al Dipartimento di Agraria dell’Università mediterranea di Reggio Calabria ed è situata nel piazzale retrostante l’edificio in attesa di essere montata.
La segheria De Leo, a breve distanza da Gambarie, è stata meritoriamente acquistata dall’Ente Parco nazionale dell’Aspromonte. Per la visita http://www.parconazionaleaspromonte.it/centri-visita-dettaglio.php?id=673
Infine, per chi scruta il passato anche attraverso i nomi dei luoghi, restano i toponimi: fontana della Serra, Sega di Pollia, Sega di Cufalo, Serra Vecchia e tanti altri.