La molitura nella vallata del Gallico nel XIX secolo
di Giuseppe Arcidiaco
I MULINI AD ACQUA
I mulini ad acqua sono stati protagonisti dell’economia di intere generazioni della vallata del Gallico (RC). Sulle carte topografiche dell’IGMI, lungo il corso di questa fiumara, in contrada Limini, territorio compreso tra Podargoni e Santo Stefano d’Aspromonte, sono segnalati i ruderi di due mulini, riportati come mulino Limini e mulino del Principe. Insieme al mulino Zoccali, sito all’interno del centro abitato di Podargoni, essi costituiscono un’importante testimonianza delle attività di molitura che caratterizzarono queste zone dell’Aspromonte nel corso del 1800. Inoltre, alcuni frammenti di antichi manufatti in pietra segnalano la possibile presenza di almeno un’altra macchina idraulica dello stesso tipo nelle vicinanze del mulino Limini, probabilmente distrutta da una piena durante le frequenti alluvioni.
COSTRUZIONE E FUNZIONAMENTO
Tali strutture, un tempo molto diffuse e numerose, erano alimentate dall’acqua della fiumara e distribuite lungo tutto il suo corso fino alla marina di Gallico, a testimonianza di ciò, il toponimo Mulini di Calanna. I loro periodi di attività erano variabili in base alla disponibilità di acqua corrente: quelli più a monte erano funzionanti per tutto l’anno, mentre quelli siti a valle, detti mulini d’inverno, erano attivi solo nei mesi più freddi, quando l’acqua era più abbondante e copriva distanze maggiori procedendo verso la foce. Per le stesse ragioni, questi ultimi, in particolare da Mulini di Calanna in avanti, erano talvolta collegati in serie ed utilizzavano tutti la stessa acqua che così non andava persa e raggiugeva i successivi mulini. Dalla posizione geografica del mulino dipendeva anche il genere di cereali macinati: frumento, granturco, segale, cicerchia ed anche castagne.
Si trattava di mulini a ruota orizzontale, un meccanismo funzionale alla portata non costante ed imprevedibile della fiumara, molto più sicuro rispetto al modello a ruota verticale, che avrebbe implicato la costruzione del mulino molto vicino al letto del torrente, esponendolo alle piene. Infatti, per evitare gli effetti delle esondazioni tali mulini erano edificati lievemente in altura, abbastanza lontani dalla fiumara ed il terreno sottostante era rinforzato da muri a secco. A monte del mulino, la presa d’acqua era costituita da un acquedotto (gora, mastra) che intercettava l’acqua prelevandola dal corso del torrente (o di suoi affluenti) ed alimentava una profonda cisterna (saetta), mantenendo sempre un adeguato livello d’acqua al suo interno. Il flusso, uscente da due ugelli posti alla base di tale serbatoio, veniva indirizzato sulle pale della ruota mettendola in rotazione. La riserva d’acqua nella saetta garantiva una portata costante in uscita, la cui velocità di erogazione poteva essere controllata attraverso opportuni regolatori in lamiera posti sugli stessi ugelli che ne determinavano anche la corretta orientazione. La ruota idraulica, molto spesso doppia, era collegata tramite un albero motore in ferro o legno alla macina posta al piano superiore dell’edificio. La macina era costituita da due mole sovrapposte (la sottana fissa e la soprana rotante, collegata all’albero). Le mole erano scolpite nell’arenaria o nella pietra lavica, importata dalla Sicilia; potevano essere monolitiche, come le più antiche oppure composte da singoli spicchi tenuti insieme da cerchi di ferro. La roccia che le costituiva veniva estratta dalla zona del vallone Merlo a Calanna, ma anche da più lontano come da Pavigliana o dalle grotte di Tremusa (Scilla). Era trasportata dai bovari e lavorata dagli scalpellini, gli stessi mugnai, che ne provvedevano alla periodica manutenzione. Battere mola era l’operazione che consisteva nello scolpire e rinnovare le incisioni ed i solchi usurati dallo sfregamento delle mole; a causa di questo processo, il peso della prima farina, ottenuta dopo una battitura, risultava alterato dalla presenza di polvere di pietra.
La molitura avveniva a partire da un imbuto ligneo quadrangolare (tramoggia) posto al di sopra della macina, riempito con le granaglie da macinare. La vibrazione, generata dal moto rotatorio della macina, favoriva la precipitazione delle stesse attraverso un canale dotato di valvola connesso con il foro centrale di alimentazione della mola, dosandone anche la quantità. Un particolare sistema di picchettatura della pietra garantiva la distribuzione uniforme delle sementi durante la macinazione e l’espulsione del macinato all’esterno, che veniva raccolto e separato tramite setacci. La velocità di rotazione della macina veniva regolata per evitare che un eccesso di calore prodotto per sfregamento scaldasse la farina alterandone il sapore e le proprietà. La macina era dotata, inoltre, di un meccanismo che consentiva di regolare lo spessore tra le due mole, in base al calibro delle sementi e per ottenere un macinato più o meno fine.
Infine, l’acqua, attraverso il canale di uscita, tornava al fiume o veniva nuovamente incanalata e sfruttata per l’irrigazione delle colture agricole. Spesso in questi casi, sorgevano gravi controversie tra i proprietari dei mulini posti a valle, che vedevano ridursi ulteriormente la portata della fiumara ed i coltivatori dei terreni a monte di essi, anch’essi bisognosi di acqua in particolare nei periodi di siccità.
UN PO’ DI STORIA
Il toponimo della contrada Limini deriva probabilmente dal latino limes, letteralmente strada delimitante il confine tra due campi o anche da limen, genericamente limite, linea di demarcazione, confine, frontiera. Per quanto riguarda Podargoni, potrebbe derivare dai termini grecanici podos ed ergon, dunque piede veloce; secondo altre interpretazioni significherebbe ai piedi del monte, in quanto centro abitato collocato alle pendici dei monti Marrappà e Basilicò.
In passato, l’acqua del Gallico è stata sfruttata per mettere in funzione vari opifici di proprietà delle famiglie più influenti della zona, non soltanto mulini, ma anche seghe idrauliche per la lavorazione del legname. Il primo mulino della contrada Limini fu edificato dalla famiglia Criserà attorno al 1808, ricordata per il matrimonio di una nipote con l’eroe di Santo Stefano, Domenico Romeo, ucciso alla fine della rivoluzione del settembre 1847. Attorno al 1815 si attesta la presenza di due mulini, uno precedente ed uno nuovo. Per far fronte al problema delle esondazioni, nel 1858-63 ne venne costruito un terzo. Le famiglie dei mugnai (mulinàri) erano spesso imparentate e talvolta affittavano i mulini ad altri nuclei familiari che li amministravano per loro.
Il mulino Limini fu costruito attorno al 1861-63, in seguito alla distruzione di un manufatto di epoca precedente e risulta oggi in buono stato di conservazione. Apparteneva alla famiglia Criserà, ultimi proprietari, e rimase in attività fino al secondo dopoguerra. Questo mulino, sito nel territorio di Podargoni, serviva quasi esclusivamente gli abitanti di Santo Stefano e fu, infatti, tale comune ad esigere l’odiata tassa sul macinato, introdotta nel Regno d’Italia nel 1868-69.
Il mulino del Principe, coevo del Limini, sorge lungo l’antico sentiero della petrazza che collegava il territorio di Santo Stefano a Podargoni. Viene erroneamente attribuito ai principi Ruffo di Scilla, in quanto sorge all’interno di quella che un tempo era la baronia di Calanna (sulla destra idrografica del Gallico), stato feudale fondato in epoca normanna e governato dai Ruffo, che possedevano, nella stessa zona, un altro mulino di epoca precedente, oggi scomparso.
Un terzo mulino era appartenuto alla famiglia Cimino di Calanna che, con l’intento di contrastare il potere delle altre famiglie di mugnai, costruì la propria mastra in modo da portare l’acqua al suo mulino sottraendola ai Criserà-Romeo. Le lotte che ne seguirono portarono all’abbattimento di questo più recente mulino e all’incendio del mulino Limini per ripicca.
Il mulino Zoccali, all’epoca polo centrale della molitura del grano per la comunità di Podargoni, oggi allo stato di rudere, fu danneggiato dal terremoto del 1908 e progressivamente abbandonato a causa dello spopolamento del centro abitato che caratterizzò il ‘900.
Molti altri mulini sono disseminati lungo la vallata del Gallico come il mulino Palamara a Cerasi o il mulino Calabrò a Sant’Alessio in Aspromonte. Quest’ultimo fu fatto costruire nella prima metà del XIX secolo ed apparteneva all’omonima famiglia, originaria di Calanna. Anche questo mulino fu reso inservibile dai terremoti del 1894 e 1908, ma fortunatamente, nel 1999 è stato oggetto di interventi di recupero.
Fonti: storico Antonino Sapone e architetto Domenico Malaspina in
https://www.youtube.com/watch?v=UVIJg3TvNjs&ab_channel=pasqualelacava
Tutto scorre di Domenico Malaspina e Antonino Sapone, Laruffa Ed. 2019
Le due immagini della tramoggia e della macina sono tratte dalla pagina facebook “mulini ad acqua di Calabria”.
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